Digressione: no, i dadi non sono il Fato

In un video di Matt Colville, famosissimo guru di D&D del web, ho trovato un’affermazione interessante: secondo lui usiamo i dadi affinché facciano le veci del Fato, mentre in realtà seguono il caso, che è molto diverso.

Ciò lo porta a concludere che talvolta sia giusto e doveroso, da parte del Diemme, alterarne di nascosto i risultati per “correggere” questa discrepanza. Su questo non sono d’accordo, come sapete, ma ne ho già parlato altrove (link in appendice).

Il discorso in sé, invece, è intrigante: cos’è il Fato? Cos’è il caso? A parte la filosofia, penso che possa rivelarci qualcosa di profondo sulle diverse concezioni del gioco di ruolo.

La citazione

We imagine, quite wrongly, that leaving the results of something up to the dice is the same as leaving it up to Fate, but that’s not true: Fate is a dramatic entity. […] The dice are random. The dice don’t care about Fate. The dice don’t care about drama. But you do: you’re a Dungeon Master, it’s your job to create drama.

(Ci immaginiamo, erroneamente, che affidare ai dadi l’esito di qualcosa sia lo stesso che affidarlo al Fato, ma non è così: il Fato è un’entità drammatica. […] I dadi sono qualcosa di casuale: non si curano del Fato, né del drama. Ma tu sì: sei un Diemme, è compito tuo creare drama.)

Matt Colville, in Fudging Die Rolls; traduzione mia

Su cosa concordo

Il signor Colville ha del tutto ragione quando dice che il Fato è diverso dal caso perché è un’entità drammatica.

Il Fato, il Destino, è qualcosa che ha un senso, seppure magari misterioso. Possiamo vederlo in senso romano / positivista / illuminista, per cui la persona è artefice del proprio destino, o in senso greco / mediorientale / fatalista, in cui è indipendente da noi e la saggezza si raggiunge nell’accettazione; o, ancora, in senso idealista / cristiano / provvidenziale, per cui è frutto degli uomini nel loro agire libero (e imperfetto), ma in parallelo c’è una volontà regolatrice superiore che all’occorrenza interviene con piccole “correzioni” (riportando la perfezione). Mi sono espresso con una grossolanità che è lampante perfino per la mia ignoranza: mi perdonino i filosofi tra voi. Il punto è che comunque la si veda si sta parlando di una forma di Necessità, non di caso: qualcosa che segue un criterio, un piano, un percorso.

Nelle storie a cui siamo abituati, il Fato (là dove contemplato) è la forza che porta le cose al loro compimento finale. Può fare giustizia, una giustizia poetica magari, o portare la catastrofe. Può portare il lieto fine o un finale tragico. In ogni caso fa qualcosa, segue una determinata agenda, un intento, un suo “gusto” se vogliamo. Per questo è un’entità drammatica, nel senso teatrale del termine.

Su cosa non concordo

Secondo me, però, è giusto che i dadi del GdR seguano il puro caso.

Diversamente da Colville, sono convinto che non sia compito del Diemme creare drama; almeno, non con i mezzi che dice lui, e non più di qualunque altra persona al tavolo. In D&D, in particolare, il drama penso stia come il cavolo a merenda.

Due tipi di equità

I dadi sono equi? Dipende dal senso che diamo al termine.

Sono imparziali: non hanno una mente, non fanno favoritismi, non distinguono tra una persona e l’altra (come dice anche The Angry GM, vedi appendice). E non imbrogliano. In questo senso, sono equi.

Spesso, di conseguenza, facciamo l’errore di aspettarci che siano giusti. Ma non lo sono: non danno a ciascuno quello che si merita. Non tendono nemmeno a creare uguaglianza. Se Tizio e Caio tirano un dado a testa i loro risultati possono essere diversissimi.

(E “alla lunga si bilancia” è un classico fraintendimento della legge dei grandi numeri: se ripetono l’operazione centinaia di volte la differenza relativa tra i loro risultati totali tende, sì, ad assomigliarsi sempre di più, ma la differenza assoluta tende comunque a crescere, non a diminuire.)

Se pensiamo all’equità come giustizia e/o uguaglianza, quindi, i dadi non sono equi. Giustizia e uguaglianza richiedono di essere imposti attivamente (lo sanno bene anche le scienze sociali). Richiedono un criterio, non procedono a caso: i dadi invece sì.

Il Fato nel gioco

Tutto questo non vuol dire che in gioco non debba o non possa esserci il Fato. Solo che non è corretto identificarlo con i dadi: è un equivoco importante da chiarire.

Ma esiste veramente?

Se volete considerare la presenza del Fato al vostro tavolo dovete prima farvi una domanda: nel nostro mondo, il mondo reale, il Fato esiste? Ovviamente la risposta è soggettiva.

Se esiste veramente

Se la risposta è sì, beh, esisterà in automatico anche nel gioco: esso, in fondo, è un’attività che si svolge nel mondo reale, come tutte le altre.

Quindi, se volete il Fato nel vostro gioco, gioite: lo avete gratis. Dovete solo lasciarlo fare. Non c’è nessun bisogno di imbrogliare coi dadi: anzi, lasciandoli esprimere gli faciliterete il lavoro.

Se invece non volete il Fato nel vostro gioco, beh, è impossibile: se esiste fuori, esiste dentro. Non si può ingannare: il fatto che chi ci prova sia destinato a fallire tragicamente è una delle poche cose su cui pressoché tutte le storie e leggende del mondo concordano.

Se non esiste veramente

Se la risposta alla domanda iniziale è no, cioè nel mondo reale non c’è alcun Fato, non ci sarà neppure nel gioco, a meno che non cerchiamo di inserircelo.

Quindi, se non volete il Fato nel vostro gioco, ottimo: lasciate che tutto vada come deve andare (cioè, secondo le regole e il puro caso) e siete a posto.

Se invece nel gioco lo volete, ecco che le cose si fanno davvero interessanti! Ne potremmo parlare a lungo, ma non ho spazio. In breve il mio pensiero è questo:

  • Il Fato è a tutti gli effetti un personaggio (un PNG) e come tale va gestito. Ha i suoi scopi (non necessariamente noti ai giocatori), la sua volontà e così via.
  • Per farlo agire servono delle regole, delle meccaniche di gioco apposite. Che possono anche essere semplici come: in determinate condizioni e/o a determinati costi (es. un certo numero di volte) il Fato può modificare un tiro di dado come vuole. Come tutte le regole, devono essere note e ben chiare ai giocatori.

Se non vi è chiara la differenza tra queste house rule e la semplice pratica “artigianale” di truccare un dado ogni tanto dietro lo schermo, l’ho spiegata bene nel secondo link in appendice.

Concludendo…

In breve, se siamo consapevoli che i dadi non sono il Fato, non c’è alcuna valida ragione per cui dovremmo far credere ai giocatori che lo siano.


Per approfondire:

Ho parlato delle varie altre tesi di Matt Colville (nel cui contesto si inserisce questa) in Meglio stoppare, caro Colville.

Mentre la pratica di “truccare i dadi” l’ho trattata in I dadi non mentono: e tu? e in Un sondaggio sui “trucchi”.

The Angry GM (autore di cui ho parlato nelle letture consigliate) in questo suo post (lingua inglese), che tra l’altro è uno di quelli, tra i suoi, con cui nel complesso concordo di meno, dice alcune cose molto interessanti, tra cui il motivo per cui spesso ce la prendiamo coi dadi: “[…] we don’t want fairness, we want justice. […] We want the outcomes we think we deserve and no chance of being screwed if we didn’t do anything to deserve the screwjob.” Cioè: (spesso) non vogliamo l’equità, vogliamo giustizia; vogliamo che le cose vadano come pensiamo di meritarci.

In un altro suo articolo (sempre in inglese) ci sono diverse sue considerazioni su pregi e difetti dei dadi, e su come consiglia di usarli nel GdR.

14 pensieri riguardo “Digressione: no, i dadi non sono il Fato

  1. Beh, non posso che concordare aggiungendo che mi pare incredibile che dm con anni o decenni di esperienza non riescano a rendersi conto di come non truccare i tiri renda le giocate invariabilmente migliori nel complesso.
    A meno che non si siano mai nemmeno presi la briga di provare, s’intende.
    Credo che il timore che un tiro di dado possa rendere le cose “anticlimatiche” derivi dall’idea che una giocata debba aderire a determinati canoni narrativi propri di romanzi, film, serie TV, ecc… Show travestiti da giochi di ruolo (Critical role e simili) hanno certamente incentivato tale percezione, direi.
    Come nota a margine mi piace spesso determinare casualmente gli oggetti magici in tesori e ricompense, senza preoccuparmi che possano rompere il gioco, risultare inutili o altro. Nella quasi totalità dei casi i risultati più stravaganti hanno dato origine a giocate epiche e, mai hanno rovinato una campagna.
    Ma forse sono solo fortunato perché ho dei buoni giocatori 😅

    1. Secondo me hai inquadrato benissimo il problema, qui.

      Si vuole far da scrittore invece che giocare. Ma facendolo, si invalida e sovverte i contributi degli altri, fondamentalmente ingannandoli.

  2. “Ciò lo porta a concludere che talvolta sia giusto e doveroso, da parte del Diemme, alterarne di nascosto i risultati per “correggere” questa discrepanza.”

    NON vorrei mai essere un giocatore al tavolo del “buon” Matt Colville. Trovo assurdo che continui a irretire nuovi giocatori con questi “suggerimenti” che trovo antitetici a come si dovrebbe giocare di ruolo.

  3. Ho già detto la mia a suo tempo sul truccare i dadi, invece è interessante questa cosa del Fato, perché in alcune ambientazioni può essere decisamente una risorsa da utilizzare.
    Se il Fato è in realtà un PNG (un avatar di un dio, una personificazione di qualcosa, ecc.) ovviamente avrà i suoi scopi, i suoi obbiettivi, le sue risorse e, forse, i suoi punteggi e si userà come qualsiasi altro PNG.
    Ma se si vuole lasciare il Fato come un’entità astratta che interviene in modo non comprensibile agli umani (semiumani, mostri, ecc.) e che manipola il “caso”, avere delle regole da seguire per il DM eviterebbe di far sembrare che il Fato sia la sua volontà. Ovviamente questo richiede una sorta di agenda o dei principi da seguire, ma mancano delle regole specifiche che permettono di “muovere il Fato” quando arriva il momento. Faccio notare che il problema più grosso è che i giocatori capiscono le regole ed il Fato da misteroso diviene deterministico, esattamente come è avvenuto per la magia.
    Come detto, se esistono le regole del Fato, allora esso può anche manipolare il caso, solo che invece che farlo perché “per il DM è meglio così”, lo fa seguendo una regola, al pari di ogni regola del manuale.

    Ciao 🙂

    1. Ciao, esatto, è quello che cercavo di dire. Potrebbe essere un esperimento interessante dettagliare e playtestare una meccanica di questo genere. Che i giocatori sappiano della sua esistenza, secondo me, non sottrae al Fato il suo mistero: i suoi scopi e criteri potrebbero rimanere oscuri, almeno in un primo momento.

  4. Alcuni commenti, buttati di corsa, scusa se non sono ben argomentati; non c’è alcun intento polemico, sono domande vere.
    a) non capisco il senso del trafiletto in piccolo. Quello che conta è la media dei tiri e la media delle differenze: in questo caso non conta la somma dei moduli delle differenze (che poi di solito si va di somma di quadrati, eccetera, non di moduli; perché usarli?), ma la (radice) della varianza, che va giù come l’inverso della radice di N.
    b) tutto bello, tutto giusto e coerente con tutto quello che scrivi. Poi però noi decidiamo quando far tirare; spesso, giustamente, diciamo sì o no senza alcun tiro; quindi?
    c) che differenza profonda c’è tra tirare e non guardare il dado e non tirare affatto? è ovvio che una differenza c’è (banalmente: il rumore), ma quale è? ed è profonda?
    d) sulla stessa linea di (b), siamo sicuri che (esagero, ovviamente) trasformare il gdr in un gioco da tavolo in cui tutto è normato sia la strada giusta? io sono “vecchio” e quindi queste idee di normare tutto con regole e meccaniche non mi convincono del tutto. Comunque, punti fato o cose simili per ignorare i dadi sono cose già viste.
    Nota per evitare ritorni di fiamma: al mio tavolo io non modifico i risultati dei dadi: se decido di tirare, seguo il dado.
    Di nuovo complimenti per il blog davvero ben ponderato.

    1. Ciao, grazie per questo commento, sono domande interessanti e ben articolate.

      C’è una cosa che mi lascia perplesso: questo articolo era incentrato sul concetto di Fato e il concetto di casualità. L’uso effettivo dei dadi da parte del Diemme, e la pratica di “truccarli” o ignorarli di tanto in tanto, non era il tema centrale qui. Invece è quello su cui si stanno concentrando i commenti, il che è un po’ strano.

      Mi sono permesso qualche allusione, ma ho discusso quel tema molto dettagliatamente in altri tre articoli (quelli linkati in appendice). In effetti, questa digressione era per chiarire l’ultimo, piccolo punto rimasto in sospeso in quell’ampio discorso.

      Posso chiederti, anch’io senza intento polemico, se hai letto gli altri articoli?

      In caso negativo, ti chiederei di leggerli prima (specialmente “i dadi non mentono: e tu?”), perché potrebbero rispondere a molte delle tue domande, se non a tutte. Poi, se mi dirai che le confermi comunque, sarò più che lieto di rispondere qui. 🙂

    2. Rispondo per punti.


      a) Penso che quello che conti sia il conteggio dei successi e dei fallimenti. Salvo casi rari, non importa molto quanto hai fatto, ma semplicemente se hai avuto successo oppure no.

      Facciamo un esempio banale: due giocatori, Tizio e Caio, devono tirare tante volte 1d20 (senza modificatori) e battere una CD di 15. Le condizioni di partenza sono le stesse. La discrepanza, il gap tra di loro (“l’ingiustizia” del dado, se così la vogliamo chiamare), sarà la differenza tra il numero di successi di Tizio e il numero di successi di Caio. Ora, in media questa differenza è sempre zero, ci mancherebbe: il problema è simmetrico. Infatti, come hai giustamente notato anche tu, ci interessa piuttosto la deviazione standard.

      Ho fatto un esperimento a forza bruta con uno script, senza stare a fare calcoli. Dopo mille tiri la deviazione standard della “ingiustizia” è di circa 20. Dopo diecimila tiri è di circa 50. In termini relativi (rapportata al totale dei tiri) è diminuita, ma in termini assoluti è aumentata e aumenta sempre.

      È un problema di tipo “camminata dell’ubriaco”: tra giocatori in condizioni identiche, con identiche probabilità di vincita, le differenze tra le vincite tendono ad allargarsi nel tempo.


      b) Su questo vedi la risposta al tuo commento successivo, sotto. In breve: è una decisione che dovremmo prendere in base a criteri oggettivi e che i giocatori possono conoscere e capire, non in base a criteri arbitrari e imponderabili.


      c) La differenza è molto profonda e non è solo il rumore. Se (io Diemme) non tiro affatto, prendo una decisione e me ne assumo la responsabilità, con chiarezza e trasparenza. Se tiro ma poi ignoro il risultato e faccio di testa mia, prendo una decisione ma per qualche motivo faccio credere ai giocatori che l’abbia presa il dado. Cambia radicalmente l’intero impianto del gioco: in un caso c’è consapevolezza di tutti su come sta funzionando (e quindi può esserci consenso – o eventualmente dissenso), nell’altro caso no.


      d) D&D è un gioco da tavolo, su questo non ci piove. Il che non significa che tutto sia normato: il ruling del Diemme è una procedura perfettamente valida. Da nessuna parte ho sostenuto di “normare tutto con regole e meccaniche”. D’altronde, tu stesso affermi che al tuo tavolo non modifichi il risultato dei dadi: questo significa forse che non giochi più a un GdR e stai normando troppo? Non credo. 🙂

  5. Mi sembra interessante la tua perplessità sulla discrepanza tra il tema dell’articolo e la pratica di truccare i dadi su cui si centrano i commenti. Credo che questo disallineamento sia dovuto a due fattori.

    1) Quello del truccare o meno i dadi (e quello più ampio di se e quando tirarli) sono argomenti molto sentiti dai giocatori di ruolo e tendono a catturare l’attenzione.

    2) Il motivo principale, direi che che è la chiusura dell’articolo (Il Fato nel gioco).
    Esprime perfettamente e chiaramente le varie possibilità e non prendi nemmeno una posizione personale filosofica (il Fato esiste, non esiste) e infatti, d’altro canto, non è assolutamente importante. Quindi… più che dirti “bel lavoro” non lascia molto spazio ad argomentazioni: hai già detto tutto. 😆

    Diverso discutere del Fato come meccanica: idea interessante, ma solo accennata.
    Come dice toni di meccaniche che consentono ai giocatori di ritirare, alterere o ignorare i dadi ce ne sono in un sacco di sistemi (spesso con nomi che tirano in ballo il fato, per l’appunto). Intendere invece il Fato come forza del mondo di gioco e quindi rappresentare il Fato anche in gioco e con meccaniche non strettamente a favore dei pg mi sembra un’idea diversa e interessante. Un’applicazione banale potrebbe essere dare un bonus a tiri per azioni in linea col fato del PG e un malus a quelle contrarie per esempio.
    Se poi si creasse una tabella dei Fati, insieme ai pg e quindi noti, ma poi per ogni pg se ne scegliesse uno in modo casuale e inizialmente ignoto al pg stesso sarebbe anche interessante, in base ai bonus e malus che uno riceve durante il gioco, capire quale fato gli è toccato.

    1. Tutte belle idee! Ci starebbe bene un articolo a riguardo, in effetti, ma la cosa migliore sarebbe prima playtestarle. Se ti capita di farlo raccontamelo, mi interessa molto!

  6. Ciao, sì avevo letto gli articoli qualche mese fa, non per niente lodavo il filo che lega i tuoi pensieri; comunque: letti, non studiati; sono andato a rileggerli.

    In realtà non volevo tanto sentire il tuo punto di vista sulla pratica di truccare i dadi, non era quello il punto centrale, per quanto l’articolo si aprisse parlando proprio di questo.

    Mi interessava di più questo aspetto del fato, che secondo me (ma: secondo te?) c’entra molto con la decisione di quando e se tirare, che in d&d è quasi sempre una decisione che viene dal master, più che con meccaniche (che in certe ambientazioni ci starebbero benissimo) per l’effetto delle moire sul gioco o cose simili. Perchè tiri? Che differenza c’è tra tirare e decidere senza tirare? Chi decide il numero bersaglio? Quanta autorità e autorialità questo comporta per il master?

    Non voglio intasare il tuo blog; erano solo degli spunti di ragionamento; spunti su cui non ho le idee molto chiare; magari tu ce le hai.

    1. Scusate se mi intrometto nella discussione, sperando di non risultare di troppo.
      Il DM ha sempre avuto un margine di discrezionalità, che però non diventa mai eccessivo se si seguono le regole e un po’ di buon senso: sfondare una porta di legno, per esempio, alcuni DM potrebbero stabilire una CD di 10, altri di 15, ma credo che nessun DM sano di mente stabilirebbe una CD di 35, per esempio. Una CD così alta per una prova così semplice sarebbe chiaramente un capriccio e uno sfogo, oppure una plateale dimostrazione di incapacità nel gestire il proprio ruolo come DM dal mio punto di vista.

    2. Ciao, non stai intasando niente, sono ottimi spunti!

      Ti rispondo all’altro commento per quanto riguarda le tue altre domande, e ti rispondo qui per quanto riguarda questa in particolare.

      Dunque. Quando si tira e quando no? Quale tiro? Con quale numero bersaglio?

      In breve: secondo me il Fato non c’entra affatto.

      Non c’è dubbio che sia il Diemme a decidere in merito a queste questioni, e che questo comporti un margine di discrezione personale (nel senso che Diemme diversi potrebbero decidere in modo diverso). Ma non credo che il Fato sia un buon criterio per questa decisione, e non mi è mai capitato di usare un criterio del genere. A te sì?

      Per me è molto importante che queste questioni siano approcciate in modo oggettivo e coerente. Il criterio, per me, è l’analisi oggettiva della situazione. Se un PG si trova dieci volte nella stessa situazione, la risposta alla domanda se tirare o meno sarà sempre la stessa, gli sarà chiesto sempre lo stesso tiro, e avrà sempre lo stesso numero bersaglio. (A meno di errori, ovviamente, che sono sempre possibili visto che siamo umani.) In questo modo il giocatore sa cosa aspettarsi e può prendere decisioni più informate.

      Se rispondessimo a quelle domande in base al “volere delle Moire”, che magari un giorno “vogliono” che tu riesca a saltare un fosso mentre il giorno dopo “non vogliono”, per ragioni loro, che tu salti lo stesso fosso, cambierebbe tutto.
      Non significa che non potremmo giocare. Potremmo giocare a patto che: (a) i giocatori siano informati dell’esistenza di queste “Moire”, cioè di questo criterio aggiuntivo usato dal Diemme, e (b) la “volontà delle Moire” abbia comunque una sua logica, cioè il Diemme interpreti le “Moire” onestamente in base a un loro preciso scopo prestabilito. Insomma, come PNG a tutti gli effetti.

      Molto diverso sarebbe se il Diemme si riservasse di decidere in maniera arbitraria ed incoerente quando chiedere tiri, quali tiri, e con quale difficoltà, cambiando criteri da un giorno all’altro senza preoccuparsi di cosa ha deciso in precedenza, per pigrizia o (ancor peggio) per indirizzare gli esiti del gioco in base alla sua preferenza del momento. E usasse poi un ipotetico Fato, un’ipotetica “volontà delle Moire”, come pretesto a posteriori per giustificare queste incoerenze.

      Non so se mi sono spiegato, spero di sì.

      La questione di come decidere se serve un tiro oppure no è fondamentale, hai fatto benissimo a tirarla fuori.
      Mi interessa la tua opinione a riguardo. Sono curioso: tu in base a quali criteri decidi?
      Io, il mio approccio, l’ho discusso dettagliatamente in questa serie:

      Home page della serie: il mio flusso di gioco

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