Pillola: i miei dèi, parte 3

Terza e ultima pillola, con colpevole ritardo, sulla mia personale visione delle divinità in D&D. Nella parte 1 vi ho detto cosa le contraddistingue e come si formano, nella parte 2 quali sono i loro poteri, da cosa derivano, e che limiti ha la loro immortalità.

Oggi concludo parlando di riti religiosi e sacramenti.

Nota bene: è tutto personale

Come ho detto nella prima parte, ciò che racconto qui riguarda il mio attuale mondo di gioco principale, quindi il mio immaginario fantasy personale; non sono regole, né consigli.

Alla larga dagli equivoci

Come ho detto anche altrove, non mi piace che la religione del mio mondo fantasy sia simile a quella del mondo reale. Come la magia, lì, è ben diversa da vuote superstizioni o giochi di prestigio, anche le mie divinità sono esseri oggettivi, indubbiamente reali.

Spero che sia chiaro che, in un mondo del genere, anche i riti religiosi vanno pensati in un’ottica del tutto diversa rispetto al nostro. Ridurli a una funzione simbolica, comunitaria, o di conforto personale, e al contempo magari immaginare gente che “non ci crede” e ci ride su, non avrebbe molto senso.

A questo punto alcune persone fanno un salto logico, pensando che i riti religiosi debbano essere molto simili alla magia: faccio questo rito e ottengo questo effetto, faccio quest’altro e lo dissolvo, in modo abbastanza sicuro e ripetibile. Addirittura ci si chiede quali meccaniche di gioco usare per descriverli. Ecco, io vorrei evitare anche questo. Se funzionasse come la magia sarebbe magia, e non qualcosa di diverso.

Divinità come PNG

La soluzione è semplice: le divinità non sono altro che PNG (enormemente potenti, certo, ma PNG), e i riti religiosi sono il modo in cui le persone possono parlare, ed eventualmente negoziare, con loro.

Non servono meccaniche particolari, quindi, a parte quelle che il gioco prevede per la normale interazione con i PNG. Se proprio se ne sente il bisogno, al limite, si potrebbero usare le meccaniche per le fazioni.

Ogni rito o preghiera non è altro che un messaggio rivolto alla divinità, spesso corredato da una richiesta: per favore, faresti questo? In tal caso, usando la terminologia della mia serie sugli incontri sociali, potremmo definirla una Richiesta, con la maiuscola; e la risposta di partenza tende a essere no. Giusto?

Motivi per non esaudire

Se gli dèi esaudissero sempre, o anche solo spesso, le richieste dei fedeli, il mondo di gioco e il gioco stesso ne risentirebbero pesantemente. Perché questo approccio sia giocabile occorre che gli dèi abbiano valide ragioni per dire di no. E i miei le hanno.

Innanzitutto, una divinità riceve moltissime richieste e il suo potere di fare miracoli (vedi puntata precedente) è limitato. Esaudirne una, quindi, ha per lei un costo, molto più grande di quanto i suoi tipici fedeli immaginano. Bisogna convincerla che è particolarmente degna, importante, meritata. Non è facile.

Inoltre, una divinità ha una diversa prospettiva sul mondo: gioca su un orizzonte di millenni, su una scacchiera che ha milioni di pedine. Non vuol dire solo che le questioni dei mortali possono apparirle insignificanti: no, vuol dire che ciò che per un suo fedele è un’ottima idea, per lei, che pondera le conseguenze ad ampio raggio, potrebbe apparire pessima. A volte un sacrificio è necessario per il trionfo finale. A volte un vantaggio immediato è la strada per il disastro.

(Ovviamente non occorre che il Diemme – che non è una divinità – sappia con precisione queste cose caso per caso: è solo una giustificazione diegetica, in-world, per la generale riluttanza degli dèi a esaudire le richieste.)

Offerte

Mentre sulla seconda motivazione i fedeli possono fare ben poco, sulla prima c’è spazio di manovra: se esaudire la preghiera è un costo, perché non allettare la divinità con una contropartita? Le offerte sono questo: se tu, dio, mi concedi questa cosa, io ti darò quest’altra in cambio. Una forma di commercio. Non è strano: molte religioni antiche avevano una simile concezione del rapporto con gli dèi, come un do ut des.

Che cosa può interessare a un essere così potente? Alcuni accettano sacrifici di valore (denaro, oggetti, bestiame…), perché sono in grado di trasformare queste cose in potere, o (più probabilmente) di trasferirle là dove servono di più al suo culto. In molti casi, però, il sacrificio è in realtà un obolo, incassato dalla chiesa od organizzazione religiosa; può andar bene anche così: si presume che agli dèi faccia piacere che il proprio culto sia ricco e prospero.

I sacrifici umani (o umanoidi), cioè l’uccisione rituale di una creatura intelligente, sono apprezzati solo da alcune divinità malvagie, che in tal modo ottengono l’anima della vittima, da poter poi asservire ai propri scopi, consumare per rinforzarsi, o scambiare come ostaggio con altri dèi.

Ma l’offerta più apprezzata è un voto: la solenne promessa di fare qualcosa di gradito alla divinità. Realizzare i suoi ideali in modo particolarmente eclatante, ad esempio, oppure edificare un nuovo luogo di colto, o convertire molti nuovi fedeli.

Rito base

Un rito base è quello che noi, cresciuti in una cultura con forte impronta cristiana, potremmo chiamare “Messa”. Può assumere forme molto diverse a seconda della divinità e della cultura locale: questo vale anche per gli altri riti che vedremo dopo.

Il suo unico scopo è mantenere una connessione sociale tra una comunità di fedeli e il dio. Pensatelo come una sorta di “buongiorno, come andiamo?” e convenevoli vari. Dare ascolto alle richieste di qualcuno è più facile se c’è una familiarità: questo vale anche per i più altruisti… e, comunque, non tutti gli dèi sono altruisti. Partecipando regolarmente al rito base i fedeli si assicurano una familiarità con il dio, quindi una migliore probabilità che li “riconosca” e sia bendisposto, se un giorno gli chiederanno qualcosa. Il dio, dal canto suo, ottiene un bel flusso costante di quel potere che, come abbiamo visto, trae dalla venerazione.

Funerali

Non tutti gli dèi hanno riti pubblici per la morte di qualcuno: a seconda di come è organizzato il pantheon, essi potrebbero essere sotto l’egida di una “divinità della morte” specifica. Comunque, anche in mancanza di un rito ufficiale, la perdita di un proprio caro è uno dei casi in cui è più frequente che i mortali rivolgano intense preghiere.

Un rito funebre serve a chiedere al dio di “prendere in carico” l’anima trapassata e assicurarle il “trattamento” migliore possibile nell’aldilà. Per il dio è qualcosa di poco costoso, in termini di potere, quindi la richiesta in genere viene accolta, a meno che non ci siano motivi contrari, legati per esempio a comportamenti indegni del defunto.

Nascite

Quasi tutte le società compiono dei riti per celebrare un nuovo nato. Di base servono solo a “presentarlo” alla divinità, per renderglielo familiare da subito. In certi casi si fanno anche richieste, come il donargli salute, forza, bellezza, talenti o lunga vita; va da sé che la divinità le sente di continuo e non può acconsentire a tutte: solo pochi fortunati “prescelti” ricevono effettivamente il dono.

Unioni

Mettere la divinità a conoscenza di un legame tra due o più persone (l’esempio a noi più familiare è il matrimonio, ma non è l’unico) può servire a due cose: chiamarla a testimone, o chiederle un intervento speciale a riguardo.

Se le persone si prendono degli impegni reciproci, il dio chiamato a testimone funge in un certo senso da notaio: non deve far altro che serbare il ricordo di quegli impegni; in seguito, in caso di dubbi, potrà essere interrogato per confermarne l’esistenza e i termini, tutto qui. Mantenere l’impegno, o prendere provvedimenti se venisse violato, spetta ai mortali (salvo casi eccezionali).

Se invece si chiede al dio di benedire l’unione in qualche modo concreto, impegnandosi in cambio a rispettare certi requisiti, non è altro che un caso particolare di do ut des. Per esempio, il dio potrebbe garantire (usando se necessario il suo potere) che un matrimonio sia fecondo, in cambio della promessa che i figli siano educati nei suoi valori e avviati al suo culto. In un caso più estremo, potrebbe assicurare la fedeltà degli sposi, scagliando una maledizione su chi dei due osasse tradire l’altro; e in cambio potrebbe volere che il primo o secondo figlio diventi suo sacerdote o suo paladino.


Uno scorcio di una maniera molto diversa (in apparenza opposta – ma in realtà non del tutto) di concepire le divinità nel gioco si può trovare su questo e quest’altro thread della Locanda dei GdR, dedicati a Fantasy World.

5 pensieri riguardo “Pillola: i miei dèi, parte 3

  1. Ciao! Giusto per amor di confronto, come ho detto anche negli articoli precedenti, la nostra visione delle divinità è abbastanza simile anche se diverge in alcuni punti.

    In questo caso, da me gli dei non esaudiscono tutte le preghiere non per potere limitato ma perché gli viene chiesto tutto ed il contrario di tutto (nella loro sfera di influenza) e quindi esaudirle tutte, significa non esaudirne alcuna 😉

    Per il resto, come ho detto, la tua visione è quasi uguale alla mia, magari cambia qualche leggero dettaglio ma niente di rilevante.

    Naturalmente parlando in generico, perché a seconda dell’ambientazione le cose potrebbero variare 😉

    Ciao 🙂

    1. Devo dire che questi punti di vista contribuiscono a mettere ordine anche sulla mia personale concezione delle divinità nelle ambientazioni su cui ho lavorato. Mi sorge un quesito, che forse potrebbe essere il passo successivo a questa discussione. Fino a che punto questa concezione delle funzionalità del divino è e può essere meccanizzata da regole nelle partite, e che posto occupa nella “vita” del Personaggio Giocante? In altre parole, a che punto del gioco il master farebbe ricorso a questo funzionamento dei riti per far progredire la narrazione e determinare gli sviluppi dell’avventura in corso? Gli incantesimi dei chierici (sempre che i tuoi assomiglino ai chierici di d&d) sono magia o riti? Il chierico potrebbe aspettarsi che il suo incantesimo non abbia effetto, perché la richiesta non viene accolta dalla divinità?

      Tutto questo modo di concepire i riti lo vedo interessante soprattutto se lo si può in qualche modo integrare con le decisioni in gioco dei Personaggi Giocanti; mi viene da pensare che o ci si trova di fronte a giocatori capaci di slanci immaginativi fuori dalle meccanizzazioni, oppure il tutto deve essere in qualche modo meccanizzato da un sistema di regole più o meno lasco.

      A presto!

      1. Ciao!

        Gli incantesimi dei chierici sono assolutamente magia: quando li lanci il loro effetto è garantito, non c’è bisogno di contrattare con qualcuno. Al limite, in certe ambientazioni, potrebbe essere necessario mantenere un buon rapporto con quel qualcuno per conservare la capacità di lanciarli (ma in quasi tutte le mie ambientazioni quella capacità deriva dall’intensità della fede del personaggio, non dalla concessione della divinità).

        Hai fatto bene a domandarlo.

        Il resto, il rapporto con la divinità-PNG, non ha bisogno di essere meccanizzato. Almeno, non più di quanto si meccanizzi, nel sistema di gioco, il rapporto con un PNG mortale qualsiasi. La divinità è solo un PNG molto potente e molto occupato. Trattare col duca è più difficoltoso rispetto a trattare col panettiere, trattare con l’imperatore è più difficoltoso di trattare col duca; ecco, le divinità sono l’estremo di questa scala.

        Quanto entrano effettivamente in gioco i rapporti con le divinità dipende molto dalla campagna. Può capitare che dei PG chiedano l’intervento di un dio, di solito in casi molto particolari, là dove la loro magia non può arrivare.

        Nella mia open table, in vista di una guerra che si prospetta drammatica, un PG ha proposto di riunire la popolazione per invocare le cinque divinità tradizionali della Colonia e chiedere il loro aiuto. Se succederà sarà un esempio interessante da raccontare 🙂

  2. Grazie per l’ultima parte delle pillole sulle divinità (letta con colpevolissimo ritardo, ma ho avuto un mese difficile 😅). Davvero interessante!

    Sulla gente che “non ci crede” però si potrebbe considerare un diverso punto di vista: in un simile contesto, che come dici tu richiede di ripensare tutto dal nuovo punto di vista, un “ateo” potrebbe essere qualcuno che ritiene che le divinità non diano abbastanza rispetto a quanto chiedono anche solo in termini di impegno per mantenere la familiarità e quindi non meritevoli di venerazione: è plausibilissimo che molte persone partecipino alle “messe” per tutta la vita senza ottenere nulla in cambio (a parte, forse, qualche considerazione nell’aldilà, ma quanto si può essere certi di cosa accade?). Pertanto qualcuno potrebbe percepire le divinità con lo stesso astio o insofferenza che si potrebbe nutrire nei confronti di qualsiasi altro potere mortale.

    Insomma credo che anche in un mondo del genere in cui non è possibile negare l’esistenza delle divinità sia ragionevole pensare pg o png distanti o comunque freddi nei loro confronti.

    1. Ciao! Certo, hai ragione: possono assolutamente esistere persone che rifiutano di partecipare a queste relazioni con gli dèi, e siamo liberi di usare la parola “atei” per indicarle, basta che siamo consapevoli che significa una cosa diversa rispetto al significato che ha nel nostro mondo (d’altra parte per “religiosi” o “credenti” vale lo stesso) 🙂

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