Role Talks: Senza consapevolezza non risolvono niente

Role Talks è un gruppo di content creators e divulgatori di giochi di ruolo fondato da Federico, Silvia e Matteo nel 2022. Il loro motto è “portiamo il GDR nelle case di tutti”: vogliono rendere questo modo semplice e accessibile. I loro due contenuti “di punta” sono i Game Pills, trailer di GdR per il pubblico generalista usando riferimenti alla cultura pop, e i Role Tips, strumenti teorici spiegati in modo chiaro e intuitivo.

Ecco tutti i loro link: https://linktr.ee/roletalks

Li ho voluti coinvolgere in questo speciale perché erano (insieme a Morgengabe) tra i principali promotori del panel sugli strumenti di sicurezza che si è svolto al Play di Modena del 2023.

Malgrado la giovane età (sia loro che del loro gruppo) mi hanno sorpreso per la loro maturità e il loro buonsenso. Credo che abbiano le carte in regola per fare strada.

Ho intervistato insieme Silvia e Federico. Dove non è specificato di chi è la risposta, è concorde da parte di entrambi.


Come vi siete imbattuti per la prima volta in questo tema così impegnativo?

Non c’è stato un esatto momento. In realtà abbiamo sempre usato le meccaniche di sicurezza, solo che all’inizio non sapevamo ancora di starlo facendo. Per esempio, ci siamo sempre messi al tavolo dicendo “non voglio vedere questo”, solo che non sapevamo che si chiamava “Linea” o “Velo”.

La ricerca funziona così (usando una semplificazione estrema): si osserva un fenomeno e si codifica in qualche modo perché diventi ripetibile. Ecco, quando abbiamo letto per la prima volta di X-Card o cose simili ci abbiamo visto la codifica di qualcosa che noi e altre persone abbiamo sempre fatto.

Noi abbiamo avuto un grosso “trauma” col gioco di ruolo. Abbiamo cominciato, come molti, con Dungeons & Dragons, ma avevamo un gruppo disfunzionale per molte ragioni, soprattutto due. Primo, la nostra inesperienza e mancanza di consapevolezza (quello che poi ci ha spinto a creare Role Talks è proprio voler rendere le persone più consapevoli su certi temi). Secondo, una singola persona che a causa del suo carattere aveva generato una serie di problemi.

Dopo che ci siamo allontanati da quella persona, ci siamo interrogati su cosa fosse andato storto e abbiamo provato a immaginare delle soluzioni che potessero evitare di raggiungere quel momento di rottura.

Pensate che, adottando delle meccaniche di sicurezza, le cose con quella persona avrebbero funzionato?

La risposta è no. Magari delle piccole cose in game si sarebbero risolte, ma lì il problema era proprio la persona.

Nel 2019, mentre eravamo in macchina per andare al Play di Modena, con noi c’era anche quella persona. A quel tempo ci eravamo già creati un altro gruppo di gioco in cui le cose funzionavano bene: provavamo un sacco di giochi e ci divertivamo pacificamente senza alcun problema. Spesso è illuminante vedere come funziona il mondo fuori dalla propria nicchia iniziale. Allora, approfittando di quel viaggio, abbiamo iniziato a parlare con quella persona cercando di capire perché facesse certe cose, e di instaurare un dialogo. Però poi non è cambiato nulla.

Come abbiamo detto nel panel, gli strumenti non servono a niente se non vengono applicati consapevolmente. Una meccanica di sicurezza non può “curare” una persona che tende attivamente a creare problemi nei confronti degli altri.

Adesso come funzionano le cose, in pratica, ai vostri tavoli, sotto questo aspetto?

Bisogna distinguere i tavoli casalinghi da quelli che portiamo in giro agli eventi.

Al tavolo casalingo ci conosciamo, conosciamo tutte le meccaniche di sicurezza (almeno, quelle che abbiamo visto fino a questo momento), e le teniamo attive tutte quante, senza dar loro per forza un nome. Prima di ogni giocata ci diciamo quali sono i topic che non vogliamo affrontare. Se una persona (ed è successo) a metà serata non regge più e ha bisogno di staccare e andare a casa, può farlo, senza che all’inizio della giocata si dica: “utilizziamo la meccanica dell’open door”. Allo stesso modo, se una tematica viene affrontata in un modo impattante e a qualcuno sta dando fastidio, applichiamo un velo senza problemi, anche se non è stato dichiarato, prima di giocare, che lo avremmo usato. Poi, chiaramente, quando giochiamo ad un gioco nuovo prestiamo attenzione a quali sono le sue meccaniche di sicurezza specifiche.

Silvia: Agli eventi cerco di mettere le meccaniche di sicurezza più conosciute e più facili da utilizzare. Quindi, Linee e Veli e X-Card, sicuramente. Poi, se vedo in difficoltà qualcuno, blocco il gioco per vedere se è tutto okay.

Federico: Mi è capitato spesso, anche al di fuori degli eventi organizzati, di far giocare persone nuove, incluse persone che non avevano mai giocato di ruolo. Voglio andare contro l’idea comune che giochi come Follow o Lovecraftesque, insomma diversi dal tipico prodotto commerciale che va per la maggiore, siano inadatti ai neofiti: ho riscontrato l’esatto contrario. In questi casi, anziché sciorinare una codifica delle meccaniche di sicurezza con spiegazioni eccetera, faccio un discorso più generico come: “ragazzi, se c’è un problema possiamo parlarne, siete liberi di fermare il gioco in qualunque momento; se volete fare qualcosa di particolarmente forte, piuttosto che andare subito a gamba tesa date un po’ di sfumatura”. E sto molto attento, col check-in, a guardare il linguaggio del corpo delle altre persone per capire se si sentono a disagio. Con persone più esperte invece posso essere palese, dico quali strumenti useremo, di solito Linee e Veli o Script Change (che è uno dei miei preferiti).

Come spieghereste Linee e Veli ai miei lettori?

Spesso, più che parlare di linea, usiamo il concetto di confine, che è più immediato. Una Linea è un limite che non dev’essere superato: se dici che non vuoi vedere i ragni, siamo sicuri che i ragni nella partita non ci saranno. Sottolineiamo che non dev’essere per forza una tematica che ti urta come persona, ma anche, semplicemente, qualcosa che non ti va di vedere per qualunque motivo.

Per spiegare il Velo facciamo riferimento a quando nei film la telecamera si sposta o sfuma in nero: ti lascio intendere quello che sta succedendo ma non te lo faccio vedere.

Come usate questi strumenti al vostro tavolo? Fate un elenco di Linee e Veli prima che si cominci a giocare?

Generalmente sì, perché ci sono vari argomenti che vengono in mente subito. Però si può chiamare Linea o Velo anche durante la giocata, se capita un argomento a cui magari non si era pensato.

Per il pre-gioco ci piace riferirci al concetto di Tavolozza contenuto in Microscope di Ben Robbins: come un pittore che prepara la tavolozza dei colori, andiamo a definire che cosa vogliamo e non vogliamo vedere nella partita. Poi in gioco può succedere di sbagliare e “uscire dalla tavolozza” (siamo tutti umani): a quel punto ci sono altri strumenti come la X-Card.

C’è qualche esempio interessante che ve la sentite di raccontare?

Federico: Pochi giorni fa stavamo giocando a Cthulhu Dark, ambientato nell’Italia della Seconda Guerra Mondiale. I nostri PG erano partigiani. Il mio era un medico, tutto d’un pezzo, che data la sua età e origine sociale, e data l’epoca, aveva un’idea molto conservatrice e retrograda della figura della donna.

Silvia: Invece il mio PG era una ragazza, insegnante in una scuola elementare.

Federico: Essendo abituato a giocare insieme a Silvia so quali tasti posso toccare, conosco i suoi limiti. Ho fatto fare al mio PG un commento fortemente sessista. Lei lo ha preso come era inteso, cioè una ruolata del personaggio. Il master però, che non ci conosceva bene, si è un attimo risentito, temendo che lei potesse essersi urtata. Io durante la settimana ci ho ragionato su, e ho iniziato la sessione seguente chiedendo scusa a tutti i partecipanti, perché in effetti sarebbe stato doveroso fare un check-in su quella ruolata lì, per assicurarsi che andasse bene a tutti.

Silvia: Il fatto che il gioco sia ambientato in un contesto in cui ci sono certe cose non significa automaticamente che possiamo farle vedere al tavolo. Il master ci ha raccontato che a lui sono capitate giocate in cui si parlava di nazismo, e certi partecipanti ci andavano giù pesante, giustificandosi con il periodo storico, senza prestare attenzione alle altre persone sedute con loro.

È un esempio molto interessante, vorrei cercare di capirlo meglio. Nel pre-gioco nessuno aveva menzionato quel particolare argomento, giusto?

Esattamente. Forse perché eravamo tutti molto stanchi, e poi era un contesto di gioco amichevole.

Poi, in gioco, nel momento in cui hai fatto fare al tuo PG il commento sessista, cos’è successo esattamente?

Silvia: Per qualche secondo la giocata è andata avanti normale. Io non sono intervenuta, non avevo risentito minimamente della cosa.

Federico: Un terzo giocatore non aveva acceso la webcam, quindi non ho visto la sua espressione, ma non ha fatto obiezioni. Invece ho notato che il master aveva avuto una reazione di rifiuto, nel linguaggio non verbale. A quel punto mi sono scusato, ho cercato di spiegare il senso di quello che avevo detto, e poi ho fatto un Rewind, cioè ho ritrattato: “l’ha pensato, ma non lo dichiara”. In effetti mi è sembrato meglio, perché, malgrado il contesto storico, il mio PG era pur sempre un uomo di cultura e con un certo aplomb. Ci tengo a precisarlo: non ho fatto il Rewind per “coprire” la giocata “scomoda”, l’ho fatto perché ero convinto che per il mio PG fosse più corretta la seconda versione. C’è stata un minimo di discussione fuori gioco in cui abbiamo chiarito che per il gruppo, compreso il master, non sarebbe stato un problema vedere quel genere di cose. E il gioco è ripreso.

Mi pare tutto a posto, quindi.

Federico: Per tutti la cosa era chiusa lì, ma non per me. Tendo a fare molta autoriflessione, e mi sono reso conto di aver mancato di rispetto alle altre persone.

Questo è molto interessante. Perché dici di aver mancato di rispetto?

Federico: Perché dovevo accorgermi per tempo che gli altri potevano essere urtati da quello che stavo per dire. Invece, pur consapevole (e promotore) di meccaniche di sicurezza che avrebbero potuto evitare il problema, non le ho usate e sono entrato a gamba tesa in quel modo. Silvia la conoscevo (e sarebbe lo stesso una mancanza di rispetto perché non si può mai essere sicuri, magari quella sera lì aveva i cavoli suoi), ma c’erano altre persone che non conoscevo altrettanto bene.

Il comportamento più corretto, secondo voi, sarebbe stato fare il cosiddetto check-in, cioè innescare la discussione sull’appropriatezza di quel contenuto prima di portarlo in gioco. Ho capito bene?

Sì. Bastava un semplice: “ragazzi, sto per dire una cosa sessista; mi sembra appropriata al contesto storico; vi va bene?”.

E questo perché vedete in quel contenuto un rischio particolarmente alto. Giusto? Penso che siamo d’accordo che, proprio perché non possiamo dire di conoscere gli altri al cento per cento, qualunque frase o azione di gioco può avere, potenzialmente, l’effetto di urtare qualcuno. Eppure non è che facciamo check-in prima di ogni frase…

Certo. Ci sono frasi che, per la società in cui ci troviamo, sono più potenzialmente dannose di altre.

La possibilità di urtare qualcuno senza volerlo, in buona fede, comunque esiste. In base alla vostra esperienza, è utile dare a quell’evento una connotazione morale, per cui la persona che lo fa ha sbagliato, ha “mancato di rispetto” agli altri e deve scusarsi? O è più utile considerarla una cosa di cui dobbiamo accettare tutti il rischio, quando ci mettiamo a giocare, per cui quando si verifica l’evento basta chiarirsi, senza che nessuno debba sentirsi in colpa?

Siamo sempre per un approccio easy: ci sta sbagliare, non è un problema, l’importante è che ci siamo resi conto e si possa rimediare.

Federico: Quella che ho raccontato è una cosa mia personale: mi auto-creo un sacco di problemi perché cerco sempre di perfezionarmi, ma è indipendente dal gioco.

Silvia: L’importante è accertarsi che veramente non sia successo nulla di grave. Perché magari qualcuno ha paura a dire che è stata urtata la sua sensibilità, magari ti dice che è tutto a posto ma dentro sta male. Se fossi stata io a fare quello che ha fatto Federico, anche se mi avessero assicurato che non c’era nessun problema, anch’io, come lui, avrei continuato a pensarci per giorni, ma perché sono fatta così. Penserei: “mi hanno detto che è tutto ok, ma magari qualcuno l’ha detto solo perché aveva paura di urtarmi a sua volta…”, eccetera.

Però una persona del genere, magari, non avrebbe detto niente nemmeno al check-in.

Infatti, alla fine, è roba che non dipende dal gioco o dalle meccaniche di sicurezza, ma da come siamo fatti noi come persone.

C’era un altro elemento interessante in questo esempio. A quanto ho capito, il master personalmente non aveva problemi con il discorso sessista del personaggio: la sua reazione negativa era dovuta alla preoccupazione che creasse problemi a Silvia. Vero?

Sì. L’ha proprio detto lui.

Silvia: Non subito, durante la giocata: qualche giorno più tardi mi ha chiesto, separatamente, se a me fosse andata bene quella scena. Un po’ perché io sono una ragazza e il commento era sessista, un po’ perché era stato diretto specificamente al mio personaggio.

Credete che sia una buona idea reagire a una giocata non in funzione di come ci fa sentire, ma in funzione di come presumiamo (o temiamo) faccia sentire altri?

Sì. È una forma di attenzione verso le altre persone. Molti pensano che il check-in consista solo nel chiedere, ma consiste anche nell’osservare gli altri e cercare di capire se stanno bene o no.

Silvia: Io l’ho apprezzato tantissimo perché, come dicevamo prima, se mi avesse dato fastidio magari avrei potuto comunque non dire niente. A volte basta una forma di interessamento diretto, una frase come “Silvia, va tutto bene?”, a sbloccare la persona.

Secondo voi esiste qualcuno con cui questo approccio sarebbe invece controindicato?

Sicuramente riusciamo a immaginarlo. Più una persona è sconosciuta e più esiste il rischio di sbagliare approccio: magari passi per uno che si impiccia, anziché uno che presta attenzione. C’è un limite molto sottile. Forse per evitarlo si può dire: “te lo chiedo, ma rispondimi solo se ti va”.

Il gioco di ruolo è ancora giovane come medium, e le meccaniche di sicurezza ancora di più. Sono strumenti ancora in evoluzione. Non sono la panacea, la soluzione universale: hanno un sacco di problematiche. Sta a noi, come persone, andare a integrare le mancanze di questi strumenti, per andare a creare il contesto di gioco il più sicuro possibile. Non sarà mai sicuro in modo perfetto.

In merito alla cosiddetta “Dichiarazione di Intenti”, avete qualcosa da dire? Voi la usate?

Premessa fondamentale: conosciamo il termine ma non abbiamo mai letto il brossurato di Riccardo Caverni. Si conferma che molte cose nel mondo del GdR si diffondono per via orale.

Silvia: C’è stato un periodo in cui la usavamo scritta (anche se non è una cosa scolpita nella pietra, possiamo modificarla nel tempo). Poi, conoscendoci come gruppo, abbiamo perso l’abitudine di scriverla. Poi ci sono giochi, come Apocalypse World o The Sprawl, in cui la dichiarazione di intenti è un po’ insita nel gioco stesso. Una volta mi è capitato di giocare online con persone sconosciute, e il master ci ha mandato un documento scritto; trattava anche la parte della sicurezza, secondo me in modo molto carino: un Google Moduli anonimo da compilare con le linee e i veli; il master poi ha messo insieme le risposte e le ha mandate a tutti. Mi è piaciuto molto.

Federico: La prima volta che ho sentito parlare della DDI è stato sul podcast della Locanda del Drago Rosso. All’epoca ero una persona diversa: avevo giocato solo un po’ a D&D e 7th Sea. Un grave problema di D&D per come lo giocavamo nel nostro primo gruppo era che le persone non si confrontassero prima di giocare; nel nostro gruppo successivo invece lo facevamo e andava meglio. Quindi, quando poi ho sentito parlare di DDI su quel podcast, all’inizio l’ho presa come un codificare qualcosa che già esisteva una conclusione a cui io e altri eravamo già arrivati: ho pensato che fosse utile divulgarla, comunque, per informare altra gente. Poi però ho provato più volte a usare lo strumento DDI, per come era stato spiegato su quel podcast, e secondo me non funziona. Con un gruppo di giocatrici del tutto neofite che non conoscevo, proponendo quel foglio scritto si è creato un distacco: “sembra un contratto”, mi hanno detto. È stato come se ci ponessimo su due fronti diversi, a due altezze diverse. Nel nostro gruppo casalingo, invece, con giocatori esperti, l’ho provata una volta che volevo introdurre un gioco dove la probabilità di morte era molto alta; tutti d’accordissimo, all’inizio, ma quando in corso di gioco si è presentata la situazione concreta sono rimasti male e si sono lamentati. Quindi, anche se lo si mette per iscritto, è comunque qualcosa di molto labile: è più un autoconvincersi di aver fatto qualcosa di utile, quando non è così. Ora ho abbandonato quel tipo di dichiarazione di intenti, usando invece il metodo CATS che è molto più amichevole.

A parte la forma verbale anziché scritta, quale altra differenza vedi, nel concreto, tra i due strumenti?

Federico: Dà la sensazione che io sia una persona come te, che vuole giocare con te e si sta mettendo d’accordo con te. A livello percettivo, tu hai la stessa voce in capitolo che ho io: stiamo conversando insieme. Non ti sto proponendo una mia visione delle cose.



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