Chiara Locatelli: Preferisco gli “strumenti di comunicazione”

Ho conosciuto Chiara Locatelli attraverso la Locanda dei GDR. La sua collaborazione mi è stata preziosa già nel mio terzo speciale, quando mi ha aiutato a capire e spiegare il concetto di bleed.

Stavolta ho insistito per intervistarla direttamente. Confidavo che avrebbe avuto cose molto interessanti da dire, e non mi ha deluso.


Partiamo dalle presentazioni?

Sono Chiara Locatelli e gioco di ruolo da quando mi divertivo a fare la strega nel capanno del giardino, strappando i petali alle rose di mia madre per farci le pozioni. 😉

Scherzi a parte, mi è sempre piaciuto “fare finta che” e nel corso degli anni sono finita a farlo in vari modi, passando per città virtuali, mmorpg e giochi via forum, fino ad approdare al gioco di ruolo da tavolo e dal vivo.

Nel frattempo mi sono svagata studiando lingue straniere e dal 2016 collaboro come traduttrice con diversi editori del mondo ludico italiano, in primis Dreamlord Games e NessunDove. Specie con NessunDove la collaborazione è molto stretta, tanto che mi sono ritrovata tra gli autori degli scenari di Crescendo Giocoso, una serie di antologie sul gioco di ruolo dal vivo da camera (la nicchia della nicchia della nicchia, eheh) nata dalla nostra comunità di giocatori, Laiv.it.

Per quanto riguarda il gioco da tavolo, in generale mi piacciono i giochi dal regolamento leggero e incentrato sulla narrazione, magari con meccaniche particolari che si allontanano dal classico tiro di dado.

Quand’è stata la prima volta che hai sentito parlare di sistemi di sicurezza, o meccaniche di sicurezza, per i GdR?

Le primissime meccaniche di sicurezza di cui ho sentito parlare riguardavano il gioco di ruolo dal vivo. C’è da osservare che in quel contesto si parla spesso di sicurezza fisica dei giocatori, oltre che emotiva. Ho cominciato a giocare dal vivo intorno al 2010 e già allora le campagne che frequentavo (la prima è stata l’associazione di Bollaverde Live, nel milanese) usavano dei sistemi legati alla sicurezza fisica: erano soprattutto un’estensione del sistema delle “chiamate”, parole che dette ad alta voce durante la giocata hanno un effetto meccanico (“Singolo!” per indicare che il colpo portato da un personaggio infligge un danno, per esempio). Oltre alle chiamate relative al sistema di gioco, c’erano delle “chiamate fuorigioco” per indicare che la partita doveva fermarsi per un’emergenza di qualche tipo, come un infortunio o una situazione potenzialmente pericolosa. A queste si aggiungevano dei gesti di mano che servivano a sottolineare che era il giocatore a dire o fare qualcosa, visto che di norma nel gioco di ruolo dal vivo si agisce e si parla nei panni del personaggio.

Intorno al 2014 ho cominciato a sentir parlare di indicazioni simili legate alla “sicurezza emotiva” dei partecipanti, soprattutto nell’ambito del “Nordic Larp” (una scuola di design che dal nord Europa si è espansa a macchia d’olio siccome, oltre alla pratica, sviluppa molto la teoria del gioco, anche in ambito accademico). Anche qui, si trattava di parole e gesti codificati che servivano a chiarire lo stato dei giocatori, magari durante una scena intensa: se un giocatore scoppia a piangere, uno scambio di gesti permette di capire se si tratta solo di un’interpretazione molto emotiva o se c’è qualcosa che va risolto al di fuori della partita. Insomma, lo stesso concetto che avevo già conosciuto, esteso alla sfera emotiva.

Avresti qualche esempio?

Un sistema che ho visto usare spesso usa tre gesti diversi: uno corrisponde a “pausa” e permette di avere un breve scambio nei panni dei giocatori per poi riprendere la scena, uno “taglia” la scena perché è successo qualcosa di grave, uno permette al singolo giocatore di “tirarsi fuori” dalla situazione e indica agli altri di ignorarlo mentre si allontana.

Oltre a questo, ho visto gli organizzatori di un evento mettere a disposizione uno “spazio fuorigioco”, dove andare a riprendere il fiato se non si vuole essere disturbati per un po’, e un “team di sicurezza”, ossia persone alle quali rivolgersi se c’è bisogno di parlare con qualcuno.

Ottimo. passiamo al mondo dei GdR da tavolo…

Mi sono interessata in maniera più approfondita al gioco di ruolo da tavolo intorno al 2015-2016 e insieme a molti sistemi di gioco nuovi ho cominciato, anche lì, a sentir parlare di meccaniche di sicurezza. Prima tra tutte la “X-Card”, che forse è uno dei più famosi e più controversi. In molti giochi ho visto proporre più sistemi diversi a mo’ di cassetta degli attrezzi.

Devo premettere che mi capita più spesso di leggere giochi nuovi che di giocarne (il tempo e i compagni al tavolo sono tiranni, eheh), quindi parlo soprattutto di meccaniche che gli autori di un gioco inseriscono come parte del regolamento, più che di pratiche al tavolo.

Oltre alla sopracitata X-Card, ho visto molti giochi proporre una lista di “Linee e veli”, ossia di argomenti da non menzionare proprio durante la partita (linee) o che possono essere menzionati ma mai descritti nel dettaglio o portati al centro della narrazione (veli). Un altro sistema popolare è il cosiddetto “CATS” (acronimo per Concept, Aim, Tone, Subject matter), che è un modo di mettere le cose in chiaro prima di giocare per quanto riguarda i contenuti, il tono e lo scopo della partita. Durante la partita, molti manuali suggeriscono di usare lo “Script Change” pensato da Beau Sheldon: una serie di parole chiave (di nuovo torniamo alle “chiamate” del gioco dal vivo, eheh) per “mandare avanti veloce” chiudendo una scena che mette a disagio, “riavvolgere” il nastro se qualcosa ha preso una piega indigesta o, di nuovo, “mettere in pausa” per un chiarimento. Sempre per restare in tema di cinema, un suggerimento che ho visto in particolare nei giochi di Jack Harrison (ma sono sicura che sia usato anche altrove) è di decidere insieme il “rating” che dovrebbe avere la partita se fosse un film, e magari indicare qualche opera cinematografica di riferimento.

Qual è la tua opinione riguardo a questi strumenti?

È complicata.

Parto dal personale. Mi è capitato molto di rado di sentirmi a disagio giocando al tavolo. Più spesso giocando dal vivo. In entrambi i casi, però, non ho mai avuto la sensazione che una meccanica di sicurezza avrebbe potuto cambiare la situazione. Questo è probabilmente un mio limite, ma provo a indagare questa sensazione.

Gli strumenti che uso più volentieri sono quelli “di modulazione”, ossia quelli che aiutano a chiarire le aspettative reciproche e sintonizzarsi tutti sulla stessa lunghezza d’onda. Ammetto di non avere troppa simpatia per gli “schemini”, quindi non sento il bisogno di aderire strettamente alla struttura CATS, ma apprezzo quando un manuale mette le cose in chiaro sul tipo di esperienza che vuole proporre e lo stesso vale per la “sessione zero” con i compagni di gioco. Mi piace l’idea di usare il riferimento al cinema per decidere se vogliamo un dramma crudo alla Game of Thrones o una storia ottimista e pulita da film Disney. Questo per esempio è un metodo che uso spesso quando faccio da facilitatrice per un grande evento e mi trovo al tavolo con un gruppo di sconosciuti. 

Tra i vari sistemi “da sessione zero”, quello che mi lascia più esitante è la meccanica di “Linee e veli”. Prima di tutto, mi dà la sensazione di essere “incompleto”, perché chiede di mettere nero su bianco solo le cose che non voglio, invece di farmi dire quali elementi vorrei davvero vedere; c’è da dire che molti giochi compensano aggiungendo una lista di desiderata, cosa che apprezzo di più. Il mio secondo problema è che molte volte viene presentato come un modo di escludere a priori le cose che mi fanno stare male, non quelle che non mi piacciono. Insomma, non è un modo per modulare la partita sui propri gusti, quanto di mettere dei limiti intorno alle proprie vulnerabilità. 

Quanto alla X-Card, che è il sistema “in corso di partita” di cui ho sentito parlare di più, troppo spesso viene presentata come un “pulsante di emergenza” al centro del tavolo per frenare tutto, con molta enfasi sul fatto che non è necessario dare spiegazioni e non è lecito per gli altri chiederne: se vedi qualcuno usare la X-Card, hai l’obbligo di interrompere la scena e non riportare più all’interno della narrazione l’elemento problematico… elemento che però chi ha usato la carta non è costretto a nominare. Di fatto, da un lato vorrebbe dire “fermiamoci e parliamone”, dall’altro si pone come alternativa al dialogo.

Qui arriviamo al mio dubbio principale sugli strumenti di sicurezza. Anche quando mi piace la loro applicazione pratica, trovo che troppo spesso vengono presentati in una maniera preoccupante: l’accento va sull’idea di evitare il più possibile che i giocatori al tavolo debbano esporsi o essere messi a confronto. Tant’è che spesso rappresentano proprio un “diritto di veto”, un modo per dire “no” a una narrazione che mette a disagio senza bisogno di spiegarsi, di aprire un dialogo con gli altri giocatori, di scendere a patti con loro. Strumenti di sicurezza, non di comunicazione, utili a tutelarsi dagli altri giocatori, più che a parlarci davvero.

Le volte che mi sono sentita a disagio, dal tavolo e dal vivo, ho trovato una di due situazioni. 

Il primo caso è quando i compagni di gioco mancano di rispetto, che sia per me, per la narrazione o per l’idea di giocare su un tema serio. In quel caso, l’assunto di partenza è che non siano disposti ad ascoltare: il tipo di persona che si siede al tavolo con una battuta sgradevole in bocca è anche il tipo di persona che prenderebbe male la richiesta di non dirla ad alta voce. Sta già rompendo il contratto sociale, perché una regola in più dovrebbe fermarlo?

Il secondo caso è quando i compagni di gioco sono benintenzionati, persone da cui non sento di dovermi tutelare, ma non avevano capito che una certa svolta della storia mi avrebbe messo in difficoltà. E questo è perfettamente normale: siamo umani, non macchine, e cose che ci sono andate bene novantanove volte potrebbero premere il tasto sbagliato la centesima. A volte sono le cose più impensabili a spaventarci o a farci sentire male. Per me in questi casi l’unica soluzione è parlarne, nel momento in cui succede, in maniera attiva: gli altri giocatori non sono veggenti e non possono sapere una cosa che fino a due minuti fa non sapevo nemmeno io, quindi devo trovare un modo di dirgliela. Cosa che però molte meccaniche di sicurezza mi dicono che è legittimo non fare.

Insomma, il mio problema è soprattutto di presentazione. Trovo che con le migliori intenzioni, con la foga di mettere tutti a proprio agio, si arrivi spesso a un estremo paradossale per il quale lo scopo dichiarato (aiutare i giocatori a comunicare) viene vanificato dai metodi (incoraggiare le persone a non esporsi mai se l’idea di farlo le mette a disagio). Per me il gioco è comunicazione e richiede di esporsi, in una certa misura. Quella misura va trovata insieme ai compagni di gioco, imparando ad ascoltarsi e soprattutto a parlare. 

Da lì la mia preferenza per i sistemi che aiutano a dire cosa ci va bene e cosa no, cosa ci piace e cosa non ci piace. Che sia in maniera preliminare o continuativa, nel corso della partita: una cosa che mi è piaciuta di giochi come Stonetop o Crescent Moon, per esempio, è che prevedono di chiudere ogni sessione con un momento di dialogo in cui tutti dicono qual è stata la loro parte preferita e cosa vorrebbero vedere di nuovo, oltre che cosa ha annoiato o è dispiaciuto. Trovo che dare un’impronta positiva al discorso, invece di usare il linguaggio del trauma e della proibizione, sia un modo molto più efficace di modulare il gioco e crei un clima migliore al tavolo.



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