Andiamo in pace (conclusioni sugli strumenti di sicurezza, parte 11)

Siamo alla fine, tenete duro. Nella parte 10 ho affrontato anche l’ultimo tema, quello del messaggio che mandiamo all’esterno. Ora non mi resta che tirare le fila del discorso in una “conclusione delle conclusioni” vagamente accettabile. Posso farcela.

Attenzione: devi aver letto le avvertenze obbligatorie per poter comprendere questo articolo.

Disegno mio. Colori di Rox, IG: @rocchisi

Siamo sulla stessa barca

Tutti i gruppi (di persone in buona fede) hanno un sistema di sicurezza (in senso lato). È la stessa cosa che ho detto per la DDI.

Non significa che tutti funzionino altrettanto bene, e che non si possa migliorare. Ma, anche sul piano comunicativo, è molto più facile far accettare alle persone delle tecniche per fare meglio quello che già fanno, anziché dir loro che devono adottare qualcosa di radicalmente nuovo perché stanno sbagliando (cosa che le farà sentire attaccate e mettere sulla difensiva).

Inoltre, lo “strumento zero” teoricamente può funzionare; e, fino a prova contraria, è giusto presumere che chi si limita a usare quello lo faccia con successo. Quando si impone uno standard di forma si rischia di emarginare, senza motivo, tanta gente che sul piano della sostanza (quello che conta) non sta facendo niente di sbagliato, anzi, magari se la cava meglio di noi.

Che il gioco resti gioco

La prima cosa da ricordare è che stiamo giocando: un’attività ricreativa, generalmente leggera, e più informale possibile.

La sicurezza è importante, ma le misure vanno calibrate bene, perché se l’eccesso di temerarietà può portare qualcuno a farsi male, l’eccesso di prudenza, dall’altro lato, rischia di distorcere la percezione dell’attività in modi davvero non necessari.

È fondamentale non sovraccaricare il gioco con troppa ritualità e formalità. L’ultima cosa che volete, credetemi, è che la gente inizi ad associare la sicurezza al tavolo con l’idea di inutili fastidi burocratici.

Al tempo zero

La consapevolezza (del consenso) è fondamentale per giocare. Ma per crearla, a seconda del contesto, può bastare un semplice paio di frasi che ricorda che il gioco si può sempre fermare e invita a far presenti eventuali problemi senza timori. In molti casi potrebbe non servire neanche questo: più è chiaro che è un gioco da tavolo, e niente di incredibilmente “più serio”, e meno ce ne sarà bisogno.

Abituarsi a compilare in anticipo (anche a voce) elenchi di “sensibilità individuali” e “argomenti off-limitsnon è funzionale, per una lunga serie di ragioni.

Buona idea, invece, da parte del facilitatore o di chi propone la giocata, presentare con largo anticipo una breve lista degli argomenti “scottanti” che contiene, in modo che le persone possano scegliere se partecipare o no. Tra l’altro, questo approccio chiarisce che queste “liste” sono un modo per permettere alle persone di scegliere il tavolo, e non per permettere a qualcuno di imporsi sugli altri (costringendoli a “edulcorare” la giocata in modo irragionevole, come qualcuno teme).

Due casi eccezionali

Ci sono due circostanze molto speciali in cui vedo il valore di una meccanica di sicurezza formale a tutti gli effetti.

La prima è quando “uscire dal personaggio” è qualcosa che si vuole scoraggiare in tutti i modi, perché il gioco è configurato in modo tale che si rimanga in character costantemente. Il tipico esempio sono i LARP (tra cui La Cantina di Marcello, di cui ci parlò Rugerfred tempo fa, con la sua ingegnosa meccanica “Mario”). In questo caso occorre uno strumento apposito per effettuare le comunicazioni di sicurezza “in codice”, in modo “camuffato”.

La seconda è quando il gioco è progettato apposta per mettere chi lo gioca in una certa condizione disagevole (di solito di tristezza, paura o simili). A quel punto, già che si includono meccaniche e procedure per determinare quella condizione, sarebbe buona creanza includerne altre per alleviarla. Insomma: se ti offro il biglietto di ingresso ti offro anche quello di uscita.

A parte quelli: è tutto linguaggio

Al di fuori di queste due eccezioni (ben difficilmente applicabili ai giochi che gioco io), l’unico uso funzionale e positivo che vedo per degli strumenti di sicurezza è quello di ausilio alla comunicazione: un vocabolario, facoltativo, che permette di esprimere le proprie esigenze più velocemente e chiaramente.

A questo punto, con o senza “meccaniche”, comunque le si chiami e comunque dicano di funzionare, la soluzione dei problemi passa necessariamente dalla comprensione reciproca, ovviamente basata sul rispetto e sull’assunzione delle proprie responsabilità. Insomma, dallo “strumento zero”.

Che poi, se ci pensate, è il punto a cui sono arrivati, con grande semplicità e schiettezza, gli amici di Role Talks: “al nostro tavolo usiamo tutte le meccaniche di sicurezza, senza curarci di dar loro un nome” is the new “basta parlarne”, è il serpente uroboro che fatto il suo giro torna alla propria coda. Più maturo e consapevole, magari, e in una forma più adatta ai tempi. Ma con la comprensione che il principio elementare è uno, per quanto numerosi siano i modi per chiamarlo.

No, non è nemmeno come la corrente di casa…

Non credo invece che una meccanica, per quanto ben progettata, sia in grado di garantire automaticamente la sicurezza al tavolo. Non solo per l’ovvio caveat che “il 100% di sicurezza non esiste mai”. No, proprio per la mia convinzione che questi strumenti abbiano al massimo un ruolo ancillare, di supporto, ma non possano mai bastare a sé stessi; che funzionino, cioè, solo se chi li usa è ben consapevole di quello che fanno. Insomma: mi dispiace per Stefano, ma neanche il suo paragone con l’interruttore della luce mi convince.

Tra il dire e il fare…

Non credo neppure nella funzione deterrente o “di garanzia” delle meccaniche di sicurezza. Non è credibile che la loro sola presenza cambi il comportamento delle persone, tenga a freno gli individui tossici, o addirittura li tenga lontani sin dall’inizio.

Senz’altro sono diventate, in questo periodo, un simbolo oltre che uno strumento: una bandiera dietro cui si sono ritrovate le persone con determinate idee, e contro cui, di riflesso, si sono schierate compatte certe altre persone con idee opposte. Si può quindi pensare di usare l’assenza, o la presenza, di questo simbolo per stimare la probabilità di trovarsi a giocare con persone con idee e valori più o meno simili ai propri.

È una scelta personale del tutto lecita. Non è diverso dal sedersi al tavolo con persone che portano certi vestiti o certe acconciature, che li identificano come parte del nostro stesso “clan”. La Gilda del Cassero ha parlato delle sue maglie rosa come di qualcosa di simile.

L’importante è non confondere questa cosa con la sicurezza nel gioco. Non c’entra nulla. Nessun simbolo potrà mai fungere da “certificato di brava persona”, e le mele marce si trovano in tutte le correnti di pensiero. I valori (dichiarati – che non sempre equivalgono a quelli applicati) di un soggetto in ambito civico, sociale, politico non sono necessariamente in corrispondenza con il suo comportamento nell’ambito del GdR. Le persone sono complesse.

Non c’è bisogno di scomodare Adam Koebel (di cui ci ha narrato Stefano) per capire che non basta dichiarare od ostentare “bontà” per averla davvero. Thalia ci ha raccontato un triste caso del genere: una persona dichiaratamente a favore dei safety tool che però, alla prova dei fatti, al tavolo si è dimostrata tutt’altro che sicura. Ranocchio ci ha fatto un altro esempio analogo.

Non riempite il vaso

Un ultimo punto fondamentale è che per la sicurezza dobbiamo fare la nostra parte, non solo quando si tratta di non mancare di rispetto agli altri, ma anche quando si tratta di noi stessi. Comunicare agli altri le nostre esigenze è una nostra responsabilità.

Come ha detto Chiara:

gli altri giocatori non sono veggenti e non possono sapere una cosa che fino a due minuti fa non sapevo nemmeno io, quindi devo trovare un modo di dirgliela

Gli altri non mi leggono nella mente. Salvo casi davvero estremi non posso considerarli imputabili di aver compromesso la mia sicurezza al tavolo se non ho fatto assolutamente niente, dal canto mio, per segnalare il problema.

Questo non vuol dire che io abbia l’obbligo di segnalarlo: non è affatto così. La scelta di tacere e lasciar correre è una delle opzioni, valida come le altre; dipende dalle circostanze. Ogni volta che decidiamo se parlare o non parlare, e come, facciamo un delicato bilancio dei rischi e benefici delle due alternative, considerando l’impatto che stimiamo su di noi e sugli altri, fatto di molte sfumature. E può darsi pure che sbagliamo. Ma nessuno può fare questa valutazione al posto nostro, e non ci sarà mai una regola fissa da applicare.

Però, se scelgo di lasciar correre (cosa che io stesso ho fatto più volte), devo prendermene la responsabilità: non posso al contempo serbare rancore alle altre persone, per cose di cui magari non si sono nemmeno accorte. Per poi accumulare questo rancore sempre di più fino ad esplodere, un bel giorno, e rinfacciargliele tutte con effetto retroattivo.

“È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso”: vi è mai capitato di sentire questa frase? Bene, ascoltate allora un consiglio da un disgraziato che in passato (ipoteticamente) tendeva molto ad “accumulare” in questo modo, e ha dovuto fare molto (ipotetico) lavoro per disimparare questa abitudine disfunzionale, nociva per sé e per gli altri. Ecco il consiglio: non dovete farlo riempire, quel vaso. Dovete intervenire alla prima goccia, o alla seconda: non all’ultima.

Se volete dare a una persona una seconda occasione, datele anche un avvertimento esplicito. Se quel “cartellino giallo” glielo date solo nella vostra testa, mentre all’esterno sorridete e fate finta di niente, succederanno due cose molto brutte. Quella persona, probabilmente, continuerà a sbagliare, essendo ignara del problema. Ma soprattutto voi, inconsciamente, sarete sempre più sul chi vive: la terrete d’occhio, cogliendo ogni occasione per metterla alla prova, osservandola attraverso la lente deformata di un giudizio già formato per metà; e quindi sarà sempre più probabile che troviate conferme a quel giudizio, e diate altri “cartellini gialli” di nascosto, e aggiungiate sempre più gocce al vostro vaso, finché… boom!

In questa maniera, quella che poteva (alle prime gocce) essere ancora gestita come un’incomprensione la facciamo inevitabilmente escalare a conflitto. La società di oggi ci sta abituando ad escalare sempre tutto. Cerchiamo di evitarlo.

La sicurezza passa anche per il coraggio di fidarsi degli altri, come vorremmo che si fidassero di noi.

Quindi, finisce qui?

Bene, è tutto quello che avevo da dire.

So che siete abituati che io concluda questi speciali con qualcosa di più… croccante. Propositivo. Una soluzione pratica, dopo tante chiacchiere e teoria. Qualcosa di concreto che costituisca il mio contributo al tema che è stato discusso. Come, che so, gli Attrezzi per giocare sicuro o i Sei gradi di rappresentazione.

Ma questo tema è davvero complesso, gente, il più complesso su cui mi sia mai capitato di lavorare (in ambito GdR, sia chiaro).

A volte bisogna rassegnarsi al fatto che non sempre esiste una soluzione pratica.

Spero comunque di avervi dato degli spunti per riflettere e trovare la vostra via.

Un sentito grazie a chi è riuscito a seguirmi fino a qui: so che è stata dura. Spero che ne sia valsa la pena.

In bocca al lupo e alla prossima!

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Ma va’! Ve l’ho fatta! Ci eravate cascati, eh?

Ma certo che ho una soluzione, un regalino concreto e croccante per voi.


6 pensieri riguardo “Andiamo in pace (conclusioni sugli strumenti di sicurezza, parte 11)

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