Il mio flusso di gioco, parte 1

In occasione del resoconto di un playtest del mio favoloso modulo investigativo (ne ho parlato in un altro post), la brava gente della Locanda dei GdR mi ha fatto una domanda molto intelligente sul mio flusso di gioco. Mi ha portato a riflettere su quello che faccio e a formalizzarlo in uno schema:

Giacché mi sembra interessante anche per voi, se vi va ne parliamo insieme.

Nota opzionale sugli schemi

Per i più puntigliosi o per chi avesse dubbi su come leggere questi diagrammi: vi invito a dare un’occhiata ai miei fondamenti di diagrammologia. Essenzialmente, questi sono diagrammi procedurali (lo stato si può rappresentare con un cursore). I blocchi rappresentano quello che avviene al tavolo. Dove più frecce entrano in un blocco è sottinteso un OR, dove più frecce escono da un blocco è sottinteso un OPT.

Introduzione

Sappiamo come funziona un GdR come D&D, giusto?

  • Il Diemme descrive una situazione.
  • Il giocatore decide cosa vuole fare il suo personaggio in quella situazione.
  • Se c’è incertezza sull’esito si usano dei dadi per vedere se ce la fa.
  • Il Diemme narra le conseguenze e si riprende dal primo punto.

Per maggiori dettagli, vedete qui: Come spiegare cos’è D&D.

Questo schema non fa che presentare in modo più dettagliato questo ciclo, con particolare attenzione al secondo, terzo e quarto punto (il primo, ammettiamolo, è piuttosto banale).

Che c’è da decidere?

Ho detto che il giocatore “decide cosa vuole fare il personaggio”, ma questa affermazione è poco precisa. Che cosa decide, il giocatore, esattamente?

Secondo me (e anche secondo The Angry GM che come sapete è uno dei miei autori preferiti), la decisione del giocatore si può scomporre in tre parti fondamentali, di cui la terza opzionale: lo scopo, l’approccio, e (forse) i mezzi. Lo abbiamo già visto in un altro articolo, in cui ho parlato della “minima descrizione necessaria”:

I want to X by Y using Z

= voglio [fare questo] in [questo modo] tramite [questa risorsa]

Si tratta di capire, rispettivamente:

  • che cosa il PG sta cercando di ottenere (lo scopo),
  • in che modo / con che procedimento cerca di ottenerlo (l’approccio),
  • ed eventualmente quali oggetti, informazioni, risorse, elementi dello scenario (mezzi e circostanze) cerca di sfruttare a suo vantaggio.

Esempi:

“Voglio saltargli addosso [= approccio] in modo da farlo cadere nella piscina [= scopo].”

“Voglio indurlo a lasciarmi entrare [= scopo] facendogli paura [= approccio]. Alludo ai miei rapporti con la mala locale e ai guai che potrei procurargli se non collabora [= mezzo].”

Il punto A.3 dello schema mi serve proprio a fare mente locale su queste cose. Non è detto, infatti, che il giocatore le esprima sempre esplicitamente: possono esserci dei sottintesi. Se ho dei dubbi, mi fermo e gli chiedo chiarimenti, con domande come: “Cosa stai cercando di ottenere?”, oppure “Come lo fai?”, e simili. Non vado avanti finché non sono sicuro di aver capito bene tutti e tre i punti.

Time for adjudication!

Adesso si tratta di rispondere alla domanda: riuscirà il personaggio a raggiungere quello scopo, in quel modo? È quella che in gergo viene chiamata action adjudication (riuscirò a trovare un buon sinonimo italiano, prima o poi!).

Può riuscire? Può fallire?

Per prima cosa mi chiedo:

  • È possibile che ci riesca (punto C.1 dello schema)?
  • È possibile che fallisca (D.1)?

Rifletto (con il puro e semplice buonsenso) sull’approccio proposto e sui mezzi eventualmente citati, e mi chiedo se sia possibile, con quelli, raggiungere lo scopo richiesto.

Se non ha alcun senso che possa funzionare si ha direttamente un fallimento, senza tirare nessun dado. Se invece può funzionare e, anzi, non vedo ragioni per cui possa fallire si ha direttamente un successo. Sappiamo già che i dadi vanno tirati solo quando c’è una ragione, giusto?

(Per saperne di più, vedi la fine di quest’altro articolo.)

È importante notare, però, che se rispondo “no” alla prima domanda c’è un passo intermedio (C.2) prima di risolvere il fallimento: mi chiedo se la cosa era abbastanza chiara. Cosa vuol dire? Beh, quando un giocatore propone un approccio che porta a fallire di sicuro, è bene domandarsi perché. Potrebbe aver equivocato la situazione, o dimenticato un particolare, o aver sopravvalutato una sua capacità. In questi casi non è bene “punirlo” prendendo alla lettera quello che dice: gli darò invece dei chiarimenti, gli indicherò le cose che non vanno (se sono evidenti al suo PG), e gli chiederò se è proprio sicuro o vuole cambiare la decisione.

Naturalmente non è sempre così: ci sono casi in cui il personaggio non ha modo di sapere che un certo approccio non può funzionare. Per esempio, se tenta di corrompere una guardia senza avere il tempo di informarsi e capire che tipo è, sta correndo un rischio alla cieca: magari è incorruttibile e ligia al dovere, e lo farà immediatamente arrestare. In quei casi non serve un chiarimento. Si sa, in fondo, che fallire fa sempre parte di D&D.

Serve un dado? E quale?

Se giudico che l’esito sia incerto, cioè che l’azione possa sia riuscire che fallire, è ora di interpellare il grande decisore del gioco, vale a dire i dadi.

Se esiste già una meccanica di gioco per quel tipo di situazione, non faccio che applicare quella (D.3).

In caso contrario potrei doverne estrapolare o inventare una (D.4): un ruling, direbbero gli amanti della Vecchia Scuola. In genere, in questi casi, cerco di discutere la cosa con i giocatori e avere il loro assenso sulla nuova meccanica.

Dopodiché, usando quella meccanica, sarà il risultato dei dadi (D.5) a decretare se il personaggio ha successo o fallisce.

L’esito finale

Da ultimo descrivo le conseguenze. Da Diemme, è innegabile, ho una certa libertà nel narrare cosa succede, ma ci sono dei paletti che devo assolutamente rispettare.

Riuscire è riuscire, fallire è fallire

La cosa fondamentale è che in caso di successo il personaggio ottenga lo scopo voluto dal giocatore (F.1), e che in caso di fallimento, invece, non lo ottenga (F.3).

Sembra una sciocchezza ma è la chiave di volta di tutto: ci siamo posti una domanda, all’inizio, e dobbiamo rispondere a quella senza svicolare. (Ne parleremo meglio la prossima volta, in un’apposita postilla.)

Conseguenze dell’approccio

Un’altra cosa molto importante è che le conseguenze siano appropriate per l’approccio scelto (e per i mezzi eventualmente utilizzati).

Il modo in cui il personaggio affronta la situazione potrebbe comportare degli “effetti collaterali”, o dei rischi, che si avranno in ogni caso, sia con un successo che con un fallimento. Essi devono essere logici e coerenti. (Sono il punto F.2 dello schema.)

Per esempio, se il PG si toglie l’armatura per muoversi più silenziosamente significa che… beh, ora è senza armatura. Se scaglia la sua spada contro il mostro, non ha più la spada. Se si arrampica su una parete di roccia, ha le mani impegnate (almeno per un po’). Se minaccia brutalmente una persona, quella ce l’avrà con lui e sicuramente non gli sarà molto amica in futuro.

Se le conseguenze dell’approccio portano il PG a mettersi nei guai in qualche modo, in genere non gli tiro addosso subito le conseguenze nefaste di questi guai (danni o altro), a meno che non fossero chiarissime ed evidenti dall’inizio (ad esempio: se ti lanci attraverso un muro di fiamme è ovvio che ti bruci). Cerco, invece, di ricominciare il ciclo daccapo: presento il nuovo problema con una descrizione (A.1) e chiedo al giocatore che cosa vuole fare (A.2).

Nella gran parte dei casi, in effetti, è proprio così che il “dialogo di gioco” al mio tavolo va avanti.

Continua…

Esiste tuttavia un’eccezione interessante, ed è quella indicata dall’asterisco in questo schema. Ve ne parlo nella seconda (e ultima) puntata perché qui sono già andato troppo lungo.

3 pensieri riguardo “Il mio flusso di gioco, parte 1

  1. Sarò ciecato ma non vedo l’asterisco.

    Trovo lo schema interessante ed è molto simile a quello che applico (inconsciamente) anch’io. Si potrebbe parlare delle conseguenze, del riesco ma… fallisco però… riesco con costo, ecc. ma credo siano tutte nell’eccezioni che porterai nel prossimo articolo 🙂

    Ciao 🙂

    1. Ciao, l’asterisco è tra A.3 e C.1, in effetti avrei potuto specificarlo.

      Sulle conseguenze in realtà credo di aver detto tutto quello che c’era da dire. Riuscire è riuscire (nello scopo), fallire è fallire (lo scopo), e poi ci sono le conseguenze dell’approccio e dei mezzi; che in certi casi potremmo voler chiamare “costo”, se così ci piace.
      Ma, come si vede dallo schema, l’esito per me è strettamente binario e non sfumato: F.1 + F.2, oppure F.3 + F.2.

    2. Ci ho riflettuto sopra e credo di aver capito meglio cosa vuoi dire. Forse tu alludi a situazioni in cui la domanda che facciamo ai dadi è di tipo quantitativo anziché un sì/no secco: quanto bene riesco a fare la tal cosa? E a quel punto conta il margine di successo o fallimento del dado, non solo se supera una soglia.

      Il fatto è che questa è una cosa che non faccio quasi mai, a meno che non sia esplicitamente prevista dalla meccanica di gioco.

      Poi ci sono giochi in cui il margine di successo o fallimento è proprio una cosa integrata nel regolamento: in Pathfinder 2 la regola generale è che si può avere “successo critico”, “successo”, “fallimento” o “fallimento critico”. E allora si segue la regola, per carità.

      Anche nel D&D vero e proprio, in effetti, ci sono i colpi critici: ci sono, cioè, situazioni in cui il successo (freccia da D.5 a E.2) arriva con il flag speciale “…e hai fatto critico!”. In quel caso, una regola mi spiega come tenere conto del flag nel giudicare il risultato.

      Tenderei, personalmente, ad applicare la regola di Pathfinder 2 allo stesso modo: vedendo cioè la domanda come binaria e aggiungendo una nota mentale, “critico”, da interpretare secondo i casi, quando si eccede un certo margine. Poi se la meccanica predefinita già prescrive qualcosa uso quello.

      Però, secondo me, è bene propendere il più possibile per domande binarie, in cui i side effect dell’approccio scelto (i “ma” e i “però”) non dipendono dal successo/fallimento.

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