Lo fai, ma come? (narrazione dei giocatori, parte 1)

Per convincere un tizio a rivelarmi un’informazione, gli rammento un certo favore che mi deve. Per infiltrarmi meglio in un accampamento di orchi ciechi dal buon olfatto, mi cospargo del loro odore. Ma una dama elfica schizzinosa non apprezza l’aroma di orco… il che è un bel problema, visto che devo negoziare con lei.

Sono esempi veri. No, non vengono dal mio tavolo, bensì da una conversazione interessante che mi ha spinto a pormi delle domande. Descrivere le azioni del personaggio ha senso in D&D? Viene fatto? E serve a qualcosa, o è solo colore? In altre parole: che posto occupa, nel nostro gioco, la fiction?

Questa nuova mini-serie sarà dedicata a ciò.

Lo spunto

Non vi racconterò i dettagli di quella conversazione, anche perché era un discorso più ampio che coinvolgeva altri giochi. Vi dirò solo gli elementi essenziali, come punto di partenza per questo discorso che è esclusivamente mio.

L’interlocutore era convinto che in D&D la fiction, nel senso della narrazione di cosa fa il personaggio e come lo fa, non fosse richiesta, e che in ogni caso (anche se introdotta) fosse irrilevante, puro colore.

Mi ha fatto tre esempi: quelli con cui ho aperto questo post. Erano situazioni in cui il PG cercava di fare qualcosa (farsi dare un’informazione, passare di nascosto, trattare). Secondo lui, come cercava di farlo, il dettaglio della situazione immaginaria (es. il favore da riscattare, gli ormoni di orco: tutte idee sue), non avrebbe cambiato niente. Anche e soprattutto a norma di regolamento, manuale alla mano.

In termini brutali e semplicistici, a suo dire: in D&D non devi descrivere come fai le cose, e anche se lo fai non cambia niente ai fini del risultato.

Inutile dire che io non sono d’accordo. Per la precisione, sono parzialmente in disaccordo con la prima affermazione, e totalmente in disaccordo con la seconda. Ma penso anche che esprimano in un certo senso una verità di fondo, di altro genere, che ci può interessare.

(Ci tengo a puntualizzare che non è escluso che gran parte del disaccordo sia in realtà un’incomprensione. Ho imparato, nel tempo, che persone con esperienze di gioco diverse tendono a dare alle stesse parole significati anche molto diversi, per cui spesso è difficile parlarsi e capirsi davvero.)

Cos’è la situazione immaginaria (fiction)?

Premessa indispensabile: questo non è un saggio formale di teoria del gioco di ruolo. Non vi parlerò di fiction first e altre robe del genere, se non per il minimo essenziale e con parole mie, senza alcuna pretesa di aderire a un linguaggio tecnico standardizzato (se poi ci tenete a documentarvi metterò dei link in appendice). Ricordatevi anche che nei miei articoli parlo del mio D&D, e non del mondo dei GdR in generale. Il mio scopo, qui, è solo condividere delle mie riflessioni su come gioco a D&D e su come ho visto giocare gli altri. Non siamo a una conferenza né in un corso universitario. Ok?

Dunque, per fiction intendo tutto ciò che ci immaginiamo insieme. La parola “insieme” è la chiave: se una cosa sta solo nella mia testa non vale, entra nella fiction, nella narrazione del gioco, solo quando la condivido con gli altri e tutti “allineiamo” la nostra immaginazione per includere quell’elemento.

Se avete seguito la mia serie sull’interpretazione di ruolo (altrimenti, ve la consiglio) la fiction è il rettangolo verde dell’immagine seguente: lo spazio immaginario condiviso (vedi l’articolo Psicosofia del ruolare).

Insomma, è la situazione immaginata da tutti noi nel mondo di gioco.

Alla prova del tavolo

Visto che i tre esempi fatti in quella famosa conversazione contrastavano nettamente con la mia esperienza (secondo la quale avrei detto che la situazione immaginaria descritta contasse eccome), li ho voluti sottoporre al giudizio di altri. Mi è venuto in aiuto il fantastico gruppo chat di Telegram DungeonsAndDragonsITA, su cui ho fatto tre sondaggi.

In merito alla mia posizione sulla prima domanda, vedi anche: Interpersonale, 1 a 0

La numerosità del campione è senza dubbio limitata, ma il risultato è schiacciante: solo per un 5% scarso dei rispondenti, a quanto pare, la situazione immaginaria è irrilevante per giocare, in D&D, le scene proposte. Qualcuno ne è sorpreso?

Ora, siccome per me la prassi prevale di gran lunga sulla teoria, e il “vero” D&D (di cui mi interessa parlare, e ai cui Diemme mi rivolgo) è quello effettivamente giocato ai nostri tavoli, non quello stampato sui manuali, la questione potrebbe anche chiudersi qui. Potete saltare il prossimo capitoletto e andare subito al successivo.

(Opzionale: alla prova del regolamento)

In realtà, anche fermandosi al regolamento, è un tantinellino frettoloso affermare che la situazione immaginaria e l’approccio descritto dal giocatore non contino nulla. Certo, se si guarda solo il paragrafo su come si effettua una prova di abilità o caratteristica, niente di tutto ciò è menzionato, ma ad uno sguardo più attento si vede che…

  • Spetta al Diemme decidere se serve un tiro o no (in molte edizioni, tra cui la 5e anche se pochi se ne ricordano, ha lui il compito anche di decidere quale tiro, ad esempio qual è la caratteristica coinvolta); e come dovrebbe fare, se non considerando la situazione immaginaria?
  • È il Diemme, in genere, a stabilire la difficoltà del tiro (nelle edizioni più recenti: la CD); e in base a cosa, se non alla situazione immaginaria?
  • Il Diemme, in molte edizioni, può assegnare bonus / malus (in 5e “vantaggio” / “svantaggio”) al tiro, proprio in relazione alla situazione immaginaria.

Come si usa la fiction

Eppure, ci sono diversi modi di giocare a D&D. A tutti noi, credo, è capitato di vedere giocate in cui l’immaginazione faceva da traino, era viva e nitida ed era il centro di tutto, e giocate che invece ci davano una sensazione meccanicistica un po’ da board game (anche senza bisogno di usare la quarta edizione, intendo). Ovviamente quest’ultima cosa non è un problema di per sé: lo è solo se non piace a noi che giochiamo, se comprime il nostro gusto del gioco.

Dove NON sta il problema

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, secondo me il problema non è nel gioco in sé.

Intendiamoci, D&D non è uno di quei giochi che si fregiano dello slogan “la fiction innanzitutto” (vedi appendice). Né uno di quelli in cui la storia, la trama, è l’oggetto delle regole (qualcuno li chiama “narrativi“). Né uno di quelli “a risoluzione di conflitto” in cui i dadi e le regole servono a stabilire l’esito finale rispetto a un obiettivo macroscopico (è invece di quelli “a risoluzione di azione” in cui stabiliscono se il personaggio riesce a fare una determinata cosa concreta, qui e ora). Se D&D non vi piace non siete obbligati a giocarlo. Se preferite i giochi con una o più di queste altre qualità va benissimo, benché non siano l’argomento del mio blog. Sono felice per voi! Certo, se per giustificare i vostri gusti (cosa di cui non ci sarebbe bisogno) fate affermazioni su D&D che non trovo corrette, è un altro paio di maniche: perché D&D, invece, è l’argomento del mio blog.

È possibile, infatti, giocare a D&D in un modo in cui la situazione immaginaria conta molto, e la maggior parte dei Diemme lo fa o almeno dice di farlo, come abbiamo visto prima. Se credete che sia il sistema in sé ad ostacolarvi, ricredetevi: potete mettere nelle vostre giocate tutta l’immaginazione che volete e farla contare quanto volete, entro limiti ragionevoli.

E, sempre contrariamente a quanto taluni pensano, il problema non è nella scarsa propensione delle persone a recitare o “stare nel personaggio” o roba del genere (coff, coff, recitazionismo, coff, coff).

Secondo me è possibile, infatti, giocare a D&D facendo contare moltissimo l’immaginazione e le descrizioni nel mondo immaginario, senza che nessuno “reciti” una parola (addirittura parlando tutti del PG in terza persona). Ed è possibilissimo, al contrario, essere tutti attori nati e fare interpretazioni da premio Oscar ma senza che, all’atto pratico, l’immaginazione impatti granché.

Dove potrebbe stare il problema

Permettetemi di ricapitolare in breve come funziona il procedimento base per giocare a GdR come D&D e affini.

Il Diemme presenta una situazione (immaginaria) al giocatore. Gli fornisce tutte le dovute informazioni, sia in termini di narrazione sia in termini di regole.

Il giocatore decide che cosa il suo PG tenta di fare. Se necessario, si usano le regole e i dadi per stabilire se ci riesce. Infine, il Diemme narra le conseguenze e la scena va a far parte dell’immaginario condiviso.

Se avete qualsiasi dubbio, anche minimo, su questo brutalissimo riassunto vi esorto a leggere l’articolo da cui sono tratte queste immagini.

Ora, D&D funziona così, su questo non ci piove. Ma c’è un aspetto che negli schemi non è considerato: la comunicazione; come comunichiamo tra di noi mentre avviene tutto questo. È importante? Può esserlo. Senza dubbio la comunicazione contribuisce alla definizione dell’immaginario comune. Per alcuni gruppi è importante che avvenga in un modo, per altri che avvenga in un altro. Vediamo.

La situazione

Il personaggio di Gino, Cutie Headcutter, si trova davanti un grosso accampamento di orchi. Non diremo che sono ciechi (ma diciamo pure che hanno un ottimo olfatto, proprio come avviene nell’attuale ambientazione delle mie campagne). Per fortuna, però, è notte e molti di loro sono intorno ai fuochi o nelle tende.

Cutie ha ottime ragioni per oltrepassare l’accampamento: il suo obiettivo, quale che sia (lo sapete, no, che deve averne uno?), necessita di ciò. Gli orchi hanno ottime ragioni per non far passare Cutie, anzi, per farlo a pezzetti se solo si accorgono di lui: sono ostili, è in corso una guerra e lo identificano come nemico. Quindi abbiamo una situazione di conflitto, interessante da giocare (il che non è prerogativa di certi giochi e non necessita per forza di meccaniche apposite: è semplicemente una storia, nel senso che in questo blog diamo al termine; la struttura di base essenziale, secondo me, per un singolo incontro come per una lunga campagna).

La risoluzione di base

Gino decide di provare a infiltrarsi, attraversando il campo senza farsi scoprire.

Naturalmente il Diemme potrebbe fargli delle domande se ha bisogno di ulteriori informazioni sull’approccio, e Gino stesso potrebbe fare domande al Diemme se ha bisogno di capire meglio la situazione. Queste domande possono essere molto narrative o molto tecniche, o una qualunque sfumatura intermedia. Comunque vada, alla fine la decisione è presa.

Il Diemme chiede a Gino di effettuare una prova di Furtività. Gino fa rotolare il suo bel dado, ottiene un numero e lo dice al Diemme.

Visto che è un bel tiro, il Diemme spiega a Gino che il tentativo ha avuto successo, che Cutie Headcutter ora si trova al di là dell’accampamento, e prosegue con la descrizione della nuova situazione.

Tutto chiaro fin qui? Bene.

Comunicazione: esempio 1

Gino: Uhm, quei maledetti orchi sono troppi per me… devo attraversare il campo di soppiatto, se voglio sperare di cavarmela! Mi calo il cappuccio sulla testa, mi stringo nel mantello, e avanzo furtivamente, guardingo.

Diemme: Vuoi cercare proprio di non farti vedere? Passare da un’ombra all’altra solo quando nessuno ti guarda?

Gino: No, no, ho fretta. Cerco solo di stare ai margini, di non fare rumore, di tenermi lontano dai fuochi e dagli assembramenti.

Diemme: Molto bene, fai una prova di Furtività. [stabilisce mentalmente una CD di 15]

Gino: [roll, roll…] 18!

Diemme: Sei abile, e la fortuna è dalla tua. Attraversi l’accampamento come un’ombra, senza dare nell’occhio. Nessuno fa caso a te: anche quei pochi che ti lanciano un’occhiata distratta sono impegnati in altre faccende e passano subito oltre. In breve sei dall’altra parte. Il sentiero si biforca: da una parte si immerge nella selva, dall’altra c’è un ponticello di legno malmesso che scavalca un ruscello…

Tenete presente che questo è quello che viene detto al tavolo, ma dal punto di vista pratico le cose sono andate esattamente come ho descritto sopra nella parte “risoluzione di base”.

Comunicazione: esempio 2

Gino: Beh, provo a passare.

Diemme: Così, plateale, come se nulla fosse?

Gino: No, no! Provo a passare furtivamente.

Diemme: Bene, fai una prova di Furtività. [stabilisce mentalmente una CD di 15]

Gino: [roll, roll…] 18!

Diemme: Superata: ce l’hai fatta, non ti scoprono. Sei dall’altra parte. Il sentiero si biforca: da una parte si immerge nella selva, dall’altra c’è un ponticello di legno malmesso che scavalca un ruscello…

Cos’è cambiato?

Per alcuni di noi, niente, ed è una posizione legittima. Per altri di noi si è perso qualcosa, magari di secondario, magari di molto importante. Ma cosa?

L’influenza della situazione immaginaria sulla meccanica? No, gente, dissento.

La decisione che Gino ha preso si è basata senza dubbio sulla situazione immaginaria che il Diemme gli ha presentato. Scommettiamo che se invece di un accampamento di orchi gli fosse stata descritta una montagna d’oro e diamanti avrebbe fatto una scelta diversa?

La risoluzione meccanica è dipesa fortemente dall’approccio con cui Gino ha deciso che il suo personaggio immaginario affrontasse il problema. Non mi si dica che quello che Cutie stava facendo in fiction non ha avuto rilevanza. Se Gino avesse detto che caricava a spada tratta, scommettiamo che la risoluzione, anche sul lato meccanico, sarebbe stata molto diversa?

E, infine, le conseguenze dell’azione sono entrate a far parte dell’immaginario comune del tavolo, della storia nella finzione. Non mi dite di no: sia in questo esempio, sia nel precedente, alla fine Cutie è dall’altra parte dell’accampamento a scegliere la via da seguire, e questo è incontrovertibilmente un fatto incorporato nella nostra immaginazione comune.

Qualcuno allora mi dirà che qui Gino sta “ruolando male” mentre nell’esempio 1 ruolava meglio. Qui dissento ancor più fortemente: ruolare è giocare di ruolo e in entrambi i casi Gino lo ha fatto. Il gioco ha funzionato, l’esito è stato lo stesso. Finché le cose funzionano non è sano mettersi a giudicare il modo di ruolare degli altri.

Ma allora, perché alcuni di noi si sentono insoddisfatti dall’esempio 2? Vediamolo meglio con un caso più estremista.

Comunicazione: esempio 3

Gino: Uso Furtività per passare.

Diemme: Ok, procedi. [stabilisce mentalmente una CD di 15]

Gino: [roll, roll…] 18!

Diemme: Superata: ce l’hai fatta. Sei dall’altra parte. Il sentiero si biforca: da una parte si immerge nella selva, dall’altra c’è un ponticello di legno malmesso che scavalca un ruscello…

Puntualizziamo: questo non dovrebbe succedere. Se frequentate questo blog da un po’ sapete bene che il primo dei miei 7 “comandamenti” sulla risoluzione delle azioni è proprio che spetta al Diemme, non al giocatore, stabilire se serve una prova e quale (e non è una mia invenzione: sono le regole). Quindi se Gino facesse così al mio tavolo non gli direi “ok, procedi” bensì “caaalma: tu dimmi cosa fai, ci penso io a dirti se serve Furtività o no”. Ma facciamo conto che il Diemme di questo esempio si sia distratto, oppure non abbia letto il mio blog.

Qual è il “problema” qui, se così lo vogliamo chiamare? Che Gino non sta comunicando niente riguardo alla finzione, alla situazione immaginaria, al rettangolo verde: si sta concentrando solo sui numeretti, sulle meccaniche.

Tecnicamente non sta facendo danni: la sua scelta delle meccaniche, seppur limitata ad esse, è comunque dovuta alla situazione immaginaria (l’ostacolo dell’accampamento con gli orchi), e la loro conseguenza produce effetti oggettivi sulla situazione immaginaria (Cutie è sano e salvo al di là dell’accampamento). La macchina di gioco sta funzionando, tiene. Se Gino si trova bene così, il Diemme pure, gli altri al tavolo anche, potrebbe andare benissimo; e chi dice che non sarebbe niente di diverso da giocare a Monopoli o a Risiko si sbaglia di grosso.

Tuttavia, ci sono due potenziali problemi che potrebbero (è soggettivo) rovinare il gusto del gioco. Uno riguarda le altre persone al tavolo, ed è la messa a fuoco. L’altro riguarda Gino, e sono i gradi di libertà.

Messa a fuoco

La finzione, abbiamo detto, incide sui meccanismi del gioco. Chiaramente questo non significa che ogni elemento di finzione deve avere un effetto meccanico: in una data scena o azione ci saranno elementi di finzione rilevanti ed altri non rilevanti. Per forza: il gioco è per sua natura un sistema approssimato.

Negli esempi precedenti, tutti gli elementi della finzione che erano necessari a trovare la giusta meccanica e a stabilire la difficoltà del tiro sono stati considerati; se non venivano forniti inizialmente, sono stati richiesti.

La differenza è che nell’esempio 2 e soprattutto nell’esempio 3, ridotto veramente all’osso, sono stati detti solo quelli. Mentre nell’esempio 1 sono state dette un sacco di altre cose. Inutili? Ni.

Vedete, nel momento in cui quelle cose sono state comunicate a tutti, e avallate implicitamente dal Diemme che è passato alla risoluzione senza obiezioni, sono entrate anch’esse a far parte dello spazio immaginario condiviso.

Pensateci. Nell’esempio 3 è un fatto oggettivo che Cutie sia arrivato sano e salvo al di là dell’accampamento; e, dato che l’azione è stata risolta con un test di Furtività, senza magia, senza combattere, è chiaro che ci deve essere arrivato furtivamente, senza magia, senza combattere. Queste sono cose “fissate” e comuni all’immaginazione di tutti, quindi sono nella situazione immaginaria condivisa. Valgono anche per gli altri esempi. Ma il resto? Tutto ciò che non è specificato è libero, ognuno se lo immagina come vuole, e dato che se lo immagina come vuole non lo possiamo considerare parte della finzione condivisa. Magari Gino si raffigura Cutie con un mantello e Lina se lo raffigura senza. Magari Mino si raffigura Cutie che striscia come un furetto dietro le tende, dall’una all’altra, quando non passa nessuno, mentre Pina se lo raffigura che avanza fischiettando una canzoncina orchesca e facendo finta di nulla.

L’esempio 1 mette a fuoco molti più dettagli. Se fosse un’immagine diremmo che ha più risoluzione. In quell’esempio Cutie si stringe nel mantello, ha un cappuccio calato sul volto, avanza senza nascondersi del tutto ma cercando di passare inosservato, tenta di non fare rumore (quindi non fischietta): tutte cose che ora sono parte della situazione immaginaria comune, sono diventate “vere” nella finzione. Questo la rende più ricca, favorendo il senso di immersione, e soprattutto tiene le nostre fantasie più vicine, più sintonizzate tra loro: stiamo giocando “più insieme”, insomma.

Ora vi rivelo due cose che vi sconvolgeranno.

La prima è che la messa a fuoco non può essere zero né infinito. Esiste una soglia minima sotto cui non si può andare (perché il motore del gioco non funzionerebbe senza alcune informazioni essenziali). E dall’altro lato la perfezione è irraggiungibile, cioè non possiamo portare tutti i possibili dettagli nello spazio immaginario condiviso e non lasciarne nessuno non specificato. Anche perché, diciamocelo:

Gino: Uhm, quei maledetti orchi sono troppi per me… devo attraversare il campo di soppiatto, se voglio sperare di cavarmela! Traggo un lungo respiro e chiudo gli occhi per trovare dentro di me la concentrazione. Ok, sono pronto. Mi scrollo un attimo per sciogliere i muscoli. Raccolgo bene i capelli usando un nastro di seta nera. Mi calo il cappuccio di lana scura sulla testa, in modo che faccia ombra ai lineamenti del mio volto. Mi stringo nel mantello con la mano destra, la sinistra pronta sul pomo della spada che però è nascosta dal mantello anch’essa. Avanzo furtivamente, guardingo. Non ho tempo di nascondermi del tutto, perciò cerco solo di stare ai margini, di tenermi lontano dai fuochi e dagli assembramenti. Tento di non fare rumore: per metà del tempo il mio sguardo è concentrato su dove metto i piedi, attento a scansare anche il più esile ramoscello che io riesca a vedere. Per l’altra metà del tempo lancio occhiate furtive intorno a me, specialmente davanti: appena intravedo il rischio di incrociare qualcuno rallento, o cambio strada con affettata indifferenza, tutto per non incrociarlo. Ci sarà un lato delle tende in ombra rispetto alla luna, giusto? Ecco, cerco di percorrere il campo sul versante opposto alla luna, in modo che l’ombra delle tende…

Yawn… 🥱 Siete ancora svegli? Io no.

Scherzi a parte, esiste palesemente l’eccesso di descrizione, non solo la sua carenza. Tra i due estremi, ogni persona avrà il suo sweet spot, il suo punto di equilibrio, la sua messa a fuoco ottimale.

Ma ecco la seconda rivelazione sconvolgente: quando giochiamo insieme non conta solo il mio punto di equilibrio, dovrò trovare un compromesso con il resto delle persone al tavolo, Diemme incluso. A volte questo è facile, perché abbiamo sweet spot molto simili e/o perché qualcuno di noi ha un ampio margine di flessibilità (un ampio range di messe a fuoco in cui si trova bene, anche se non sono esattamente il suo ottimo). Altre volte è più difficile o addirittura impossibile. In effetti, questo non è che uno dei tanti aspetti in cui potrebbe esserci un’incompatibilità tra due persone, che impedisce loro di giocare allo stesso tavolo divertendosi. Succede, non è la fine del mondo.

Gradi di libertà

C’è un errore (veniale) che rischiano di fare anche i migliori. E il D&D moderno (dalla terza edizione in poi) è, diciamocelo, particolarmente prono a questo errore: prima o poi ci caschiamo tutti.

Consiste nel considerare le regole un po’ più “codificate” (le azioni di combattimento, oppure le abilità, oppure le capacità speciali dei personaggi, e così via) come dei pulsanti da premere. Come se avessimo in mano una tastiera, una consolle, un joypad, quello che volete voi, su cui ci sono esattamente quei pulsanti. E ridurre quindi la scelta delle azioni del personaggio alla scelta di quale pulsante premere.

Ebbene, la mia convinzione è che D&D non dovrebbe funzionare così (ma se a voi piace e vi ci divertite fate pure, eh: io mi rivolgo a chi questa cosa la soffre come un problema). Certo, può funzionare così, ma è un po’ una trappola. Perché in D&D le regole sono un sistema approssimato per codificare, e per risolvere, la realtà immaginaria di gioco. Questo vuol dire che la tastiera ha molti più pulsanti: in effetti, ha infiniti possibili pulsanti. Le regole più codificate sono solo i pulsanti “in evidenza”, diciamo così, quelli di uso comune; sono lì per praticità, per semplificarci le cose, non per limitarci.

Ovviamente Gino, nel prendere le sue decisioni, dovrà conoscere le regole del gioco e tenerne conto. Ma se tutto quello che fa è scegliere una regola (un’abilità, un’azione predefinita, una feature) dalla tastiera preimpostata, si sta auto-limitando. Non si sta privando solo di una maggiore ricchezza della fantasia condivisa (la messa a fuoco, vedi sopra), cosa di cui potrebbe legittimamente importargli poco, ma anche di una maggiore ricchezza di opzioni e di possibilità: quella che è data, appunto, dall’immaginazione.

Se Gino descrive cosa cerca di fare il suo PG, nel mondo della finzione, immergendosi nella situazione, sarà compito del Diemme tradurre la sua descrizione in termini del regolamento: è tutto normale, fa parte del mestiere. Nella gran parte dei casi si ricadrà su un’azione, abilità, regola, feature predefinita, e meno male: vuol dire che chi le ha predefinite ha fatto un buon lavoro. Non vogliamo ridurci sempre al ruling stile Vecchia Scuola, vero? Ma in diversi casi potrebbe starci bene un aggiustamento: applico la regola, sì, ma con vantaggio, con +2, con un effetto favorevole. E in alcuni casi, rari ma belli, potrebbe nascere una regola ad hoc: tutte le edizioni di D&D e affini che ho conosciuto erano abbastanza flessibili da permetterlo.

(In effetti sarebbero altri i giochi in cui c’è l’assunto che un piccolo pacchetto predefinito di azioni / procedure / mosse / comelevoletechiamare esaurisca in sé tutto il funzionamento del gioco, e ogni dinamica della finzione debba per forza essere ricondotta esattamente a una di esse. E forse, dico forse, tendono a creare in chi li usa l’aspettativa, erronea, di trovare nel manuale di D&D qualcosa di analogo. Ma io non parlo di altri giochi, in merito ai quali sono ignorante come una capra: questo blog parla solo di D&D. Smettetela di distrarmi!)

Non è finita, ma…

Lo so che vorreste vedermi tirare delle conclusioni, da tutto questo. Forse vorreste dei consigli su come incentivare i vostri giocatori a “narrare” di più (o di meno). Soprattutto, sono sicuro che vorreste vedermi toccare il punto degli ormoni orcheschi od odori orcheschi.

Ma mi sono davvero dilungato già troppo. Troppissimo. Ne riparliamo, ok? Portate pazienza.


Per approfondire:

Avviso: quello che segue qui è un bel mattone pesante; a meno che non vi prema molto l’approfondimento teorico (che comunque sono poco qualificato a presentare) passate pure oltre, scorrendo direttamente fino alla sezione commenti.

Fiction first (“prima la finzione” o “la finzione innanzitutto”) è un concetto di teoria del GdR. Indica quel design di gioco tale per cui la narrazione, la descrizione libera di quello che succede nella fantasia, ha in qualche modo la precedenza sulle meccaniche di gioco nude e crude, e le meccaniche entrano in gioco solo quando l’esito di ciò che sta venendo descritto è incerto, conflittuale o roba del genere. O meglio, credo che indichi questo. Più o meno. Perché, come vedremo, è uno di quei concetti per cui esistono varie definizioni, non sempre del tutto sovrapponibili.

La fonte principale che mi aveva introdotto, molto tempo fa, al concetto di fiction first era un post del 2017 di Giochi dal Nuraghe, e in occasione della stesura di questo articolo lo sono andato a cercare. Eccolo qui. Presenta anche una bella tabella riassuntiva, che oso riprodurre qui, sperando che l’autore non si arrabbi.

Leggendo l’articolo noterete che l’autore è decisamente favorevole al fiction first, ritenendolo un tratto distintivo del “vero” gioco di ruolo. Noterete anche come tracci un solco tra i GdR “davvero” fiction first e quelli che possono non esserlo, come D&D (almeno ha la bontà di dire che può, lasciando l’incertezza, anche se in tutto l’articolo lo usa sostanzialmente come esempio di mechanics first).

Non starò qui a contestare quegli esempi, che secondo me si basano su un malinteso di fondo (come minimo, l’ultimo punto della colonna di destra, “quelle meccaniche fanno accadere qualcosa nella narrazione”, c’è sempre anche in D&D; ma non è l’unica obiezione che potrei fare). Credo d’altronde che basti già il mio piccolo sondaggio a mostrare che la gran parte delle persone gioca D&D secondo la colonna fiction first della tabella, e non secondo l’altra.

Ma se lasciamo da parte il punto di dove si vuole collocare D&D, l’articolo nel complesso è godibile e molto interessante. Lo consiglio davvero.

E non si può negare che il gioco che lì viene usato come contro-esempio virtuoso, Dungeon World, abbia davvero qualcosa di molto diverso da D&D nel profondo della sua struttura. Come tutti i giochi PbtA è basato su procedure di meccanica di gioco, chiamate “mosse” (eccole qui), che si “attivano” solo nel momento in cui viene narrato / descritto qualcosa di appropriato nella scena immaginaria. Per esempio, la mossa Sfidare il Pericolo si attiva “quando agisci nonostante una minaccia incombente o ti esponi al pericolo”, e chiede espressamente di descrivere come lo fai.

In un gioco del genere, quindi, il giocatore non può non giocare fiction first, perché deve descrivere cosa sta facendo il suo PG, per avere “diritto” ad attivare la mossa. Non può dire direttamente “uso Sfidare il Pericolo!”. Mentre in D&D uno può dire “uso l’azione di attacco” e bypassare del tutto la narrazione. Giusto?

Beh… io confesso la mia ignoranza (non avendo mai giocato a Dungeon World; a qualche altro PbtA sì, ma brevemente). Lascerò quindi che cerchiate risposte presso chi ne sa più di me. Ammetto timidamente, nella mia ignoranza, di avere dei dubbi. Intanto perché “uso l’azione di attacco” di fatto implica che qualcosa avviene nella fiction (il PG sta usando la sua arma per tentare di colpire il nemico). In secondo luogo, perché un esperto giocatore di Dungeon World che voglia Sfidare il Pericolo usando Destrezza sa benissimo che cosa dire per far avvenire ciò, e ho il vago sospetto che nel 90% dei casi potrebbe benissimo essere sempre la stessa frase; a quel punto, non è molto diverso da dire “uso Sfidare il Pericolo con Destrezza”, c’è solo l’escamotage di rimpiazzare questa formula “meccanicista” con un eufemismo fantasioso. Tenderei a dire che non sia la sostanza, l’aspetto qualitativo (cioè, la colonna della tabella precedente) a distinguere i due giochi, quanto piuttosto la forma, l’aspetto quantitativo, la quantità minima di dettagli di fiction necessaria per il funzionamento. Detto nei termini di questo mio articolo: senz’altro una struttura a mosse con “descrizione immaginaria obbligatoria” incentiva una maggiore messa a fuoco.

(Con questo discorso non voglio certo sostenere che non ci sia nessuna differenza di sostanza tra D&D e DW: sono diversissimi, invece, anche proprio come scopo del gioco! Voglio solo dire che non penso che la differenza consista in questa roba fumosa che qualcuno chiama fiction first vs. mechanics first.)

Un’altra presentazione, sempre entusiastica e forse un po’ “di parte”, ma interessante, del concetto di fiction first si trova in una SRD di Fate (un famoso motore generico per GdR): eccola qui (lingua inglese).

Fa, secondo me, un pochino di miscuglio con il concetto di conflict resolution (le due cose, secondo me, non vanno necessariamente di pari passo). Ma per i nostri scopi è sufficiente. Un punto curioso e affascinante è l’affermazione per cui, nell’approccio fiction first, ciò che materialmente fanno i giocatori è narrare cosa sta succedendo nella finzione, e la meccanica non fa altro che porre dei vincoli su cosa può essere narrato.

Molto belle sono anche questa pagina e soprattutto quest’altra pagina di Vincent Baker (autore, tra l’altro, proprio di Apocalypse World, il capostipite dei PbtA); entrambe, ovviamente, sono in inglese.

Per ampie discussioni in materia di fiction first, con tanti ulteriori spunti, eccovi una discussione su Reddit e una su rpg.net (entrambe in inglese anche queste).

Ma posso forse lasciarvi senza propinarvi un articolo del solito The Angry GM? Eh no, non posso proprio esimermi. Quindi eccovi il suo parere in materia (lingua inglese, e solite avvertenze sull’autore). Ci va giù abbastanza pesante, come è nel suo stile, e include senza complimenti i PbtA tra i mechanics first anziché tra i fiction first, cosa che farà storcere molti nasi. Ma è davvero brillante e merita.

11 pensieri riguardo “Lo fai, ma come? (narrazione dei giocatori, parte 1)

  1. Difficile slegare il pensiero dei giocatori dalla pulsantiera predefinita, io sto cercando, da mesi, di applicare la tua idea “descrivi cosa fai e ti diro’ io la regola da usare” ma ancora si cade nel “uso furtivita’ ”
    Noi comunque, per cronaca, siamo giocatori da esempio 2 (in alcune occasioni cadiamo anche nel metagame) e non mi dispiacerebbe se riuscissimo a spostarci un po’ di piu’ verso l’esempio 1.

    1. Ciao, molto interessante. In bocca al lupo! La prossima volta vorrei provare a dare un po’ di consigli generali, ma avere dei casi concreti a cui applicarli è sempre meglio.

      Ti posso chiedere un paio di cose? (Sentiti libero di non rispondere.)

      Prima: tu stai cercando da mesi di fare ciò, ma è un obiettivo solo tuo o anche degli altri? Ti è capitato di parlarne con loro apertamente, e di chiedere se questo tipo di cambiamento piacerebbe anche a loro?

      Seconda: in che modo stai cercando di farlo? Quando il giocatore ricade in “uso furtività”, come ti comporti?

      Grazie! 🙂

      1. Ne ho parlato con tutti ma i consensi erano un po’ dubbiosi, e’ un obbiettivo comune ma io ci tengo di piu’ rispetto agli altri. Quando mi viene detto “faccio una prova di questo” io di solito rispondo che stiamo cercando di provare un sistema nuovo che favorisca maggiormente la fantasia e chiedo la gentilezza di sforzarsi di applicarlo anche per vedere come funziona e magari darne un giudizio dopo averlo provato bene.
        Il fatto e’ che ai giocatori suona strano cambiare un abitudine ormai radicata, qualche protesta ogni tanto la ricevo.

        1. Perché non provi a chiederli: “bene, come lo fai?”. A volte funziona, a volte no.

          Ciao 🙂

      2. Si.. insomma. Nonostante io non perda mai la gentilezza e cerchi argomentazioni che paiono sensate la verita’ e’ che sto cercando di imporre loro non li cambio di metodo ma almeno un tentativo per vedere come funziona.

        1. Capisco. Beh, è abbastanza normale che i cambiamenti di approccio richiedano tempo. Ma se i giocatori non ci vedono un beneficio, sarà una strada in salita…

  2. Immersione. Ecco la parola che cercavo e che viene sostituita dalla maggioranza con “mancanza di interpretazione”. In realtà l’unica mancanza di interpretazione che vedo è l’esempio 3: il giocatore ha bypassato completamente l’immaginario collettivo. Non c’è niente che ci dica cosa sta succedendo in fiction.
    L’esempio 2 invece l’interpretazione c’è, solo che manca l’immersione, quella cosa che fa sì che tutti immaginano (più o meno) la stessa cosa che accade nel gioco.

    Fiction First e Mechanical First: il problema fondamentale è solo che in un caso bisogna sempre dire cosa succede in fiction, nel secondo può essere ignorata. Ad esempio, durante un combattimento in D&D, la fiction si perde: non puoi decidere di parare, schivare, colpire le ali, approfittare della distrazione del mostro per… se la regola non è prevista, l’azione non la puoi fare. E difatti i giocatori iniziano a ragionare in termini di TpC, Pf, AdO, ecc. (ho usato le abbreviazioni apposta); chiunque guardi una partita di D&D, fino all’inizio del combattimento è tutto chiaro, poi non ci si capisce più niente. L’immaginario non è coinvolto, anzi a volte è dannoso: le famose “azioni non previste” sono sempre gestite male dal sistema, lasciando in genere il diemme in un salto nel buio e speriamo vada bene (ed il più delle volte va a schifio). L’abitudine alla fine è tale, che ti sembra normale che sia così e giochi in cui l’approccio è diverso ti sembrano strani (“perché quello sta portando via il prigioniero invece di combattere? Non dovrebbe essere possibile!”)

    Ultimo ma non ultimo: quando si parla del fatto che l’immaginario non conta assolutamente nulla (combattimenti a parte), in realtà si intende che non ha la rilevanza che vorresti. In D&D 3.x puoi avere un bonus alle prove per convincere tale che qualsiasi sia il malus, ottieni comunque un successo; quindi vai all’ambasciata sporco e puzzolente, mandando a fare quello che ti si trova davanti ed ottiene comunque un successo! Viceversa, potresti aver bisogno di tirare 30 su 1d20 per riuscire nella prova di Furtività; un giocatore che vorrebbe ingegnarsi a risolvere la questione, si ritrova “castrato” perché dovrebbe comunque fare 28 su 1d20… a questo punto non ci prova neppure e dice che la fiction non conta.

    Eh, sì, le abitudini di gioco sono una brutta bestia (ed anch’io ne ho tante).

    Ciao 🙂

  3. Riguardo al discorso sulla tastiera predefinita, ti è mai capitato che un giocatore desse una certa descrizione con l’intento di “premere un certo bottone” e tu la interpretassi diversamente (oppure il contrario da giocatore)?
    Per esempio, che Gino dicesse “stretto nel mio mantello, evitando gli sguardi degli orchi, cerco di passare attraverso l’accampamento senza essere scoperto”, e tu gli chiedessi un tiro di Furtività, mente Gino se ne aspettava uno su Camuffarsi o qualcosa del genere, perché la sua idea era non tanto di non essere visto, quanto di non essere riconosciuto come non-orco, come gestiresti la cosa? Al momento in cui dichiari il tiro richiesto dai la possibilità di spiegare meglio l’approccio, nel caso il giocatore ritenga di essere stato frainteso?
    E se invece il problema non fosse un fraintendimento, ma proprio un dubbio su quale bottone sia associato?
    Ad esempio, Adele vuole convincere la guardia della casa di un mercante a farla ricevere, allora si inventa di essere la migliore amica del duca, per incuterle timore. Adele si aspetta un prova di intimidire (ha un bonus molto alto), mentre il master la ritiene una di raggirare( bonus di Adele basso).
    Concederesti alla giocatrolice la possibilità di cambiare approccio (per esempio una minaccia fisica), oppure no?

    1. Certo! Il giocatore ha senz’altro diritto alla possibilità di cambiare approccio (o di descriverlo meglio), in caso di fraintendimenti oppure nel caso in cui la “traduzione meccanica” non sia quella che si aspettava. 🙂
      Una buona domanda, grazie!

  4. Per curiosità, ho ripetuto il sondaggio su Instagram, ma ho avuto poche adesioni.

    Alla prima domanda, 11 su 11 hanno risposto che l’argomentazione aumenterebbe le probabilità di successo.

    Alla seconda, 10 su 13 hanno risposto che l’odore aumenta le probabilità di successo, i restanti 3 su 13 che rimangono invariate.

    Alle terza, 12 su 13 hanno risposto che le probabilità di successo con gli elfi peggiorano, 1 su 13 che rimangono invariate.

    Risultati scarni e incerti, ma abbastanza in linea con quelli di Telegram dell’anno scorso.

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