Ron Edwards (parte 2): Essere “feriti” non è il punto

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Ecco la seconda e ultima parte dell’intervista a Ron Edwards.


Linee e veli sono stati una pietra miliare nella storia dei GdR, ma oggi c’è un numero vastissimo di ‘strumenti di sicurezza’ formali, dai più specifici ai più generici.

“Per quanto ne so, alcuni di questi sono perfettamente adeguati” afferma Ron “Quello che contesto è la X-Card, che considero rozza, inefficace e fuorviante”.

Tra l’altro Edwards non usa il termine ‘strumenti di sicurezza’: è legato ad alcune tendenze della cultura dell’hobby che non gli piacciono. “Una cosa bella che forse ricorderete da quella conversazione con Keenan Kibrick è che, quando si capisce cosa sono le linee e i veli, di fatto si gioca anche al di fuori della sfera con cui si era partiti. Ecco perché a volte mi piace chiamarli ‘strumenti di pericolo’ (danger tools), per invertire la terminologia”. (È un commento umoristico: non prendetelo come una nuova terminologia tecnica, mi raccomando!)

Sulla consapevolezza

Coloro che promuovono gli ‘strumenti di sicurezza’ spesso ci vedono il vantaggio di creare consapevolezza: informano tutte le persone al tavolo che possono, ad esempio, fermare il gioco o dire ‘no’ a un certo contenuto. La cosa interessante è che in seguito queste cose vengono spesso fatte senza neanche usare lo strumento formale. In molti mi hanno raccontato qualcosa di simile riguardo la X-Card, per esempio: la sua mera presenza basta a stabilire il giusto clima, dopodiché, al bisogno, le persone parlano e si chiariscono senza toccare davvero la carta.

Quest’ultima mia considerazione sembra corrispondere, almeno in parte, alle osservazioni di Ron: anche lui ha chiesto, qualche volta, alle persone che adottavano la X-Card se essa fosse davvero usata in corso di gioco, e la risposta era: “che buffo, no”.

“L’idea era: abbiamo bisogno di qualcosa come la X-Card sul tavolo, fa comportare tutti al meglio” prosegue “Non me la bevo proprio. Non credo che le persone siano in grado di funzionare in quel modo. Mi fido delle persone perché faccio delle cose con loro e vediamo come vanno. Non do credito a una riga di testo o a un pezzo di carta che afferma che rende il gioco più sicuro: chiunque può dirlo”.

Sulla paura di interrompere il divertimento altrui

Un altro punto a favore degli ‘strumenti di sicurezza’ che mi è stato riferito più volte è il fatto che rimuovano timori o esitazioni che trattengono dal parlare. Si resta in silenzio a causa della pressione sociale, o perché non si vuole ‘rompere l’immersione’ degli altri o ‘rovinare’ il loro divertimento. Se invece l’intervento viene ‘camuffato’ sotto parole rituali e procedure ‘giocose’ si ha la sensazione che sia sempre parte del gioco e non interrompa niente.

“Nella cultura dei giochi di ruolo, abbiamo creato una distinzione artificiale tra ‘dentro’ e ‘fuori’ il personaggio, che è estremamente rozza e imprecisa” osserva Ron.

Ripete quello che ha detto prima: il medium del gioco di ruolo è l’ascolto e la reincorporazione, non è una sorta di ‘registrazione’ di ciò che diciamo. Alcune persone, dice, si sentono come gli editor di tutto ciò che viene detto in ogni momento. C’è questa percezione che se qualcuno dice qualcosa nel momento sbagliato rovini il ‘final cut’ di ciò che stiamo creando. Se si vede il GdR in questo modo, allora “sì, certo, è un medium fragile”. Ma non dev’essere per forza così: non siamo in diretta, possiamo parlare liberamente di ciò che stiamo facendo, commentarlo, modificarlo in corsa; non succede niente di brutto.

Sulla gestione delle emergenze

Un’altra considerazione diffusa è che gli ‘strumenti di sicurezza’ possano gestire situazioni traumatiche o stressanti nel modo ottimale, perché sono progettati appositamente. Mi è stato fatto il paragone dei protocolli di sicurezza in caso di incendio o terremoto. In piena emergenza non ci fidiamo del buonsenso: troppo alto il rischio di errori. Progettiamo invece in anticipo una procedura rigida, e durante l’emergenza ci atteniamo a quella per minimizzare i rischi.

“Sono d’accordo” dice Ron “ma perché questa procedura standardizzata deve essere molto simile al dare uno schiaffo in faccia? In pratica la X-Card fa questo. Voglio dire, avere una procedura nota è una cosa giusta, ma non possiamo averne una buona?”.

In realtà la sua visione pone l’accento sul vocabolario comune, più che su rigide procedure. “C’è un motivo per cui qualcuno, ai tavoli a cui gioco, dice ‘linea’ o ‘velo’: è un’affermazione molto chiara e comprensibile. È un’idea eccellente: abbiamo qualche mezzo per comunicare durante il gioco. Poi possiamo proseguire da lì e vedere come va”.

Inoltre non vede la ragione di paragonare il gioco con un’emergenza reale. Qui stiamo parlando di situazioni molto meno difficili e pericolose. Se si assiste a un’emergenza vera e propria durante il gioco, probabilmente non dovremmo giocare, almeno non con quelle persone.

Sulla Luxton e sui tunnel

C’è un caso molto peculiare, tra gli ‘strumenti di sicurezza’ più famosi: la cosiddetta tecnica Luxton. Mi sarebbe piaciuto trovare esempi (di gioco giocato) di come funzioni realmente, ma non ci sono riuscito. La sua descrizione, da parte di P. H. Lee, include il fatto di orientare il progredire del gioco in una direzione specifica: in pratica, la persona che è stata messa in difficoltà ottiene il pieno controllo sullo sviluppo futuro di quella parte della fiction.

Ron è fortemente contrario. Fa notare che le affermazioni di Lee non sono supportate da nessuna esperienza concreta di gioco, e non possono essere prese seriamente.

Esprime invece apprezzamento per la procedura del Tunnel in Stonewall 1969 di Stefano Burchi. L’ha vista usare in gioco, anche se non riporta dettagli per tutelare la privacy delle persone coinvolte. “Non c’era nessuna manipolazione dell’esito, il contenuto della sessione non è stato modificato. Si tratta in realtà di come gestire il dialogo tra noi. Ci si concentra sulla persona che sta avendo una risposta emotiva, in maniera che continui a sperimentare il contenuto che la turba, sapendo che può superarlo”.

Non è (solo) quello che credete

E ora, la parte migliore della chiacchierata.

Di solito, quando si parla di sistemi di sicurezza, “sembra che la priorità sia quella di evitare che le persone si facciano del male. Noterai che non ho mai detto questo” dice Ron.

Sorprendente, vero? Aspettate di sentire il resto.

“È proprio questa la distorsione che è stata immediatamente imposta sull’intera faccenda.” L’idea che il gioco di ruolo sia un’attività intrinsecamente pericolosa per cui, per prima cosa, “dobbiamo trovare un modo per assicurarci di non danneggiare queste persone (notare che sono sempre loro, gli altri: molto paternalistico)”.

Un altro problema culturale è dare per scontato che ci siano “malintenzionati” al tavolo: persone tossiche, che offenderanno o maltratteranno le altre di proposito. Perciò avremmo bisogno di strumenti che permettano al resto di noi di assicurare che quelle persone non facciano troppo danno. Però, chiede Ron, “andreste a fare qualsiasi attività sociale o di svago con persone che supponete essere così?”.

Domanda retorica: certo che no, rispondo, con gente del genere non giocherei affatto. Ron concorda, e aggiunge: se il contesto sociale è tale che “ti preoccupi a renderti vulnerabile a queste persone… forse dovresti smettere di andare alle convention. Lo capirei: neanch’io mi fido di molte delle persone che si trovano lì”.

Rischi interessanti e preoccupazioni estetiche

Dopotutto, però, sta parlando di renderci vulnerabili. Non è l’ammissione che il GdR in effetti è, in un certo qual modo, un’attività rischiosa?

“C’è sempre un po’ di rischio” riconosce Ron tranquillamente “come in qualsiasi altra attività ricreativa sociale”. Questi rischi “sono reali sotto molti punti di vista, ma non consistono in questo: che il gioco fa male alle persone, e che tutti noi dobbiamo essere particolarmente sicuri, altrimenti ciò accadrà”. Come ha detto prima, dovremmo abbandonare sia la convinzione di essere circondati da bulli e altre brutte persone, sia quella di star facendo un’attività delicata che necessita di costanti correzioni e attenzioni. A quel punto rimangono ancora certi rischi, e sono utili dei metodi per gestirli.

“Veramente, credo ci siano dei rischi interessanti” dice Ron: potremmo volerci avventurare in un territorio che troviamo problematico in modo produttivo; spesso, l’arte lo fa. In tal caso dovremmo farlo con delle accortezze, in modo che non venga fuori una schifezza. “Quindi, sì, ci sono strumenti per farlo”.

“C’è uno stato di vulnerabilità, dovuta all’essersi fatti coinvolgere dalla fiction fino a quel momento, e poi scoprire che sta andando in posti che in realtà non si vogliono”. Ovviamente è normale che la storia possa prendere strade impreviste: è GdR, la fiction è emergente, il che è stupendo. Il problema di cui Ron sta parlando, qui, è quando ci si accorge che certi aspetti, tematici o estetici, che si sono creati non vanno bene per noi, a tal punto che non possiamo più goderci il gioco.

“Vorrei sottolineare che non sto parlando solo di ‘essere feriti’: sto parlando di qualsiasi motivo” sottolinea “Concentrarsi sull’aspetto traumatico significa perdere la portata di ciò di cui sto parlando. Non sto dicendo che l’aspetto traumatico sia assente, ma che è solo uno dei tanti aspetti da considerare”. Per esempio, potremmo trovare un qualcosa inappropriato semplicemente perché è volgare, stupido o esagerato, o perché renderebbe la nostra storia ridicola, adolescenziale. “Penso che sia molto sensato mantenere la discussione a livello di estetica, perché, vedete, non stiamo più parlando di regole”.

La trovo un’osservazione brillante. Come giocatori, abbiamo la libertà di scegliere tra un’infinità di cose che il gioco ci permette di fare, e abbiamo una responsabilità che va di pari passo. È chiaro che ci saranno scelte migliori e peggiori, dal punto di vista del giudizio estetico del tavolo: alcune ci faranno divertire di più, altre di meno, anche molto di meno, per una varietà di ragioni. Non significa che la soluzione sia introdurre nuove regole che vietino le scelte del secondo tipo.

Ci sono anche altri problemi, continua Ron, che non abbiamo un buon vocabolario per descrivere.

“Nello sviluppo di qualunque banca di fiction ci sono cose immutabili e cose mutabili. Si può essere molto scorretti nel cambiare cose, riguardo a un personaggio, che un’altra persona avrebbe pensato fossero immutabili”. E sì, questo può far male. Insieme ad altre forme più elementari di offesa: non è che dobbiamo dimenticarcele, si tratta solo di vederle come parte di qualcosa di più ampio e complesso.

Chiarimento, non correzione

La domanda allora diventa: come possiamo gestire tutto questo in modo funzionale? Vediamo come viene fatto ai tavoli di Edwards.

“Penso che, poiché si tratta di un fenomeno dinamico nel gioco, dovremmo essere gentili l’uno con l’altro nel trovare queste cose. Ho visto persone in gioco dire: ‘Sei sicuro?’, o ‘Non sono così sicuro’, o ‘Non mi piace così’. Senza che si tratti di un’affermazione che mette a tacere, come ad esempio: ‘Sei una persona cattiva, hai infranto la legge, ora sono ferito e sanguino, stai zitto!’ – che è quello che è la X-Card”.

“Ci sono valutazioni e conversazioni che, più che correggere, chiarificano” spiega Ron. ‘Correggere’ implica che qualcuno abbia la colpa di aver rotto qualcosa e ora dobbiamo ripararlo: è un approccio conflittuale. ‘Chiarificare’, invece, significa che dobbiamo arrivare a capirci l’un l’altro e poi si potrà continuare, sapendo che stiamo migliorando.

“Quindi, sì, ci sono linee e veli, ma cerchiamo di trovarli, impariamo gli uni dagli altri. Non dimenticate: non si tratta di vincere un Oscar. Quello che stiamo facendo evaporerà, quando avremo finito”. Quindi, se questa volta non facciamo tutto bene, è okay: magari ne parleremo dopo la sessione, o magari ci rifletteremo per conto nostro… e la prossima volta andrà meglio. “Se hai mai suonato”, prosegue Ron, con una delle sue analogie più famose “sai che ci saranno alti e bassi”.

Superare una linea cyberpunk

Non molto tempo fa, in una giocata a Savage Worlds di ambientazione cyberpunk, in cui Ron era giocatore, il Game Master aveva programmato (‘railroadato’) un evento: una PNG donna doveva arrivare in moto, sparare a una persona a cui i PG stavano facendo da guardie del corpo, e poi dileguarsi. “Beh, stava giocando al tavolo sbagliato” dice Ron. I giocatori si sono fatti valere, chiedendo un regolare tiro per l’iniziativa e la possibilità di agire. Alla fine hanno sconfitto e ucciso la donna. Il che è stato un po’ uno shock per il GM, che si era affezionato a quel PNG… “ma sai, succede”.

Dopodiché, uno dei giocatori ha detto che la PNG morta indossava una bella giacca. Un altro ha commentato: “E anche dei bei pantaloni di pelle”.

“Si trattava di chiacchiere da tavolo, nessuno parlava di prelevare davvero qualcosa dal suo corpo” spiega Ron. Ma “il senso di malessere nauseabondo che ho provato in quel momento… mi ha disgustato”. Ciò che aveva detto quel giocatore è, secondo lui, un chiaro esempio di “superare una linea”.

Cos’è successo, a quel punto? Beh, la cosa interessante è che nessuno ha detto niente. “Ripensandoci, tutti noi trasalimmo, me lo ricordo”. Tutti tacevano. C’è stata qualche forma di comunicazione non verbale, potremmo dire. È bastato: una cosa simile non è più ricapitata.

“Non c’è stato un grande, grosso ‘va bene, tutti quanti, dobbiamo discutere seriamente’. Ma non si è mai ripetuto. Non so bene per quale meccanismo sociale, ma va bene così, no?” continua Ron. “Più ci penso, più ipotizzo che la persona che ha parlato abbia riflettuto, da sola”.

E conclude: “Non esiste una formula perfetta: quando succede questo, allora fai quello. Ma c’è spazio per essere un po’ più gentili. Non abbiamo bisogno di fronteggiarci o di un grande ‘gruppo d’incontro’. C’è spazio a seconda delle persone”.

(ringrazio Ranocchio per l’aiuto nella traduzione)



2 pensieri riguardo “Ron Edwards (parte 2): Essere “feriti” non è il punto

  1. Un po’ provocatorio:
    “andreste a fare qualsiasi attività sociale o di svago con persone che supponete essere così?”
    Mi è capitato alle medie e non poche volte. Ne eri obbligato. Esperienze terribili. Per fortuna non giocavo ai GdR od avrei finito di odiarli, come non sopporto il calcio.

    Tornando all’articolo. Sono d’accordo con lui sulla X-Card (uno schiaffo in faccia) mentre non sono riuscito a capire cosa ne pensi degli altri sistemi. Ha ragione sul fatto che alcuni sono “paternalistici” e che basterebbe sapersi ascoltare, ma il fatto stesso che esistano tante discussioni, pone Ron in una posizione sbagliata: sì, basterebbe ma evidentemente non viene fatto!

    Io poi sono sempre della “scuola” Never Stop the Game e quindi gli strumenti che bloccano il gioco mi piacciono poco. Ho trovato interessante il “suona la campana” detta in un’altra intervista perché lì la inserisce, anche se c’è ancora da lavorare, all’interno del gioco.

    1. Prima parte: sono d’accordo con te, sono esperienze terribili che presto o tardi ti portano a odiare il gioco; per questo andrebbero conosciute ed evitate alla radice, anziché darle per scontate cercando di sviluppare strumenti che si pensa che le attenuino.

      Credo che Edwards non abbia un giudizio generale su tutti i sistemi di sicurezza, ma piuttosto un giudizio specifico per ciascuno di essi anche a seconda di come viene usato. Non posso parlare per lui, ma l’idea che mi sono fatto è che li veda bene quando sono incorporati con cura in un buon design del gioco (come è senz’altro il caso della “campana” di Spacerunner), o quando sono una semplice terminologia che facilita la comunicazione.

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