Stefano Burchi (parte 1): Allinearsi per poi starci dentro

Stefano Burchi è un giocatore appassionato di GdR. Si definisce “incidentalmente game designer”, e si riconosce nel Manifesto di Mammut RpG. Ha scritto il gioco breve “L’avventura di una notte”, che è disponibile proprio sulla pagina itch di Mammut.

Soprattutto, è autore di Stonewall 1969 – Una storia di guerra, un gioco di ruolo impegnato e coraggioso, a sessione singola, dove si interpretano persone alle prese con conflitti interni ed esterni durante, appunto, i moti di Stonewall, un evento cardine per la storia di affermazione della comunità LGBTQ+. È uscito sia in italiano che in inglese per Asterisco Edizioni. Inutile dire che affronta temi molto forti, tra cui la discriminazione, l’oppressione, e la violenza delle forze dell’ordine.

Il gioco (d’ora in avanti, per brevità, lo chiameremo Stonewall) ha un proprio sistema di sicurezza, che include: un esplicito riferimento all’approccio “Non Ti Abbandonerò” di Meg Baker; le parole di sicurezza “Frena”, “Pausa”, “Tunnel” e “Stop”; e la “Regola dell’Occhio Vigile” che impone di prestare attenzione attiva al benessere degli altri (“Se percepite un disagio inespresso, o avete il dubbio che per una delle altre persone qualcosa non vada, chiedete loro come si sentono. […] Anticipate al tavolo quello che vorreste fare e domandate se è ok”, eccetera).

Per scoprire meglio Stefano e il suo gioco, ecco una sua intervista Cercatori di Atlantide e una a Niente da Dire.

Ho assistito, online, a un discorso di Stefano sui sistemi di sicurezza nel GdR, nell’ambito dell’Invisibil3con 2023. Hanno partecipato anche Gloria Comandini (che ha parlato del progetto Spazio Sicuro) e Alberto Filetti della Gilda del Cassero (che ha espanso anche lui il concetto di spazi sicuri). La registrazione si trova a questo link: la parte di Stefano inizia al minuto 38:53.

Avevo molti dubbi che mi volevo chiarire, e lui è stato davvero gentilissimo: mi ha dedicato un’enorme quantità del suo tempo, sia in chat che in una lunga videochiamata, rispondendo a tutte le domande con una pazienza incredibile. Gli devo un ringraziamento particolare. (Ringrazio anche Sbaxx e Marta Palvarini che ci hanno messi in contatto.)

Ne è uscita una tale quantità di materiale da costringermi a fare dei tagli cospicui, di cui non posso che scusarmi. E ho dovuto comunque dividere l’intervista in due parti.


Come sei entrato nel mondo del GdR? E che cosa preferisci giocare?

Ho iniziato tra la terza media e la prima superiore: mi regalarono la scatola base di D&D (quella nera della EG). Ero un avido lettore fantasy e mi prese parecchio. Ma non riuscii a giocare granché finché non entrai nel giro di alcuni amici che usavano Advanced D&D.

Poi il GM dello stesso gruppo mi prestò il manuale di Vampiri Revised: fu un colpo di fulmine. Ho sperimentato anche con Werewolf e Mage, ma mi era più facile trovare gruppi di gioco per Vampiri. Con questi giochi del Mondo di Tenebra ho iniziato a ricoprire il ruolo di GM/narratore.

A un certo punto, su richiesta dei giocatori, ho provato Pathfinder come GM. Non è andata male, ma ho capito che quel genere di giochi non faceva per me. Anche oggi, mi trovo meglio con quelli che facilitano l’improvvisazione o preparazioni mirate. Vampiri non lo faceva particolarmente meglio di D&D, ma era meno complesso da gestire, quindi mi faceva concentrare meglio su quello che mi interessava.

A fine 2012, attraverso la community di Gente Che Gioca, ho scoperto il mondo dei giochi di ruolo indie e non “tradizionali”. È stato il mio secondo colpo di fulmine: da allora non ho più giocato giochi “tradizionali”, salvo poche eccezioni. Per la mia esperienza hanno pesato molto Mondo dell’Apocalisse (uno dei miei preferiti in assoluto), Cuori di Mostro, PSI*Run, Witch: The Road to Lindisfarne, Montsegur 1244, S/Lay W/Me, Kagematsu.

Ho iniziato a interessarmi anche di LARP, in particolare di LARP da camera. 

Cosa ti ha portato a scrivere Stonewall?

Diverse ragioni. In quel periodo stavo vivendo alcuni cambiamenti importanti e sentivo una spinta a conoscere meglio la storia LGBTQI+. Poi avevo bisogno di riflettere su alcune situazioni, e farlo con lo strumento del gioco mi è sembrata una buona idea.

Stonewall è la storia corale di una rivolta partita dal basso, dalle persone più oppresse in quel contesto storico e sociale. Questa è una delle ragioni principali per cui il gioco ha un impianto senza GM: non volevo che una voce al tavolo avesse più autorità narrativa delle altre.

Parla di persone e delle loro reti di relazioni in un sistema oppressivo: chi sono, quali sono le loro relazioni, cosa è importante per loro, quali sono le loro paure.

Come hai coniugato questi temi con le meccaniche del gioco?

Si sono riflessi, intanto, nel design delle schede dei personaggi (si tratta di un gioco a cast fisso: i personaggi si scelgono, non si creano). Ognuna ha delle domande e il gioco, avanzando, cerca di spingere a metterle in scena tramite situazioni di crisi.

La struttura divisa rigidamente in atti e le regole di gestione delle scene, che si richiamano a un immaginario “cinematografico”, hanno il compito di creare un crescendo narrativo ed emotivo.

In Stonewall si sa già come inizia e come finisce la storia: il cuore e fulcro del gioco è andare a vedere il perché, che emerge conoscendo e scoprendo i personaggi in corso di gioco.

Sei soddisfatto del risultato?

Per mia natura, non sono mai davvero soddisfatto di quello che faccio, ma i feedback che ho ricevuto mi fanno pensare di essere passato per la strada giusta. Poi, chiaramente, si può sempre fare meglio.

La cosiddetta “Dichiarazione di Intenti” di “Musta” Caverni ti è familiare? Che cosa ne pensi?

La conosco e credo che si muova nella direzione giusta.

La gestione delle aspettative è parte del contratto sociale, il primo tassello per parlare di sicurezza. Il consenso, per poter essere espresso liberamente, deve essere informato: dobbiamo essere in condizioni di sapere che vogliamo giocare proprio quel gioco, con quei contenuti e temi, con quelle modalità, in quel contesto e con quelle persone.

Spesso questo viene dato per scontato, purtroppo, specie in quella cultura ludica che è basata su giochi che non ne hanno mai parlato esplicitamente sui manuali.

Nei gruppi con cui giochi usate la DDI?

Qualche volta sì, così come formulata da Musta. A volte è sintetica, tipo messaggio Telegram, a volte più elaborata. Anche quando non la uso prevedo comunque una fase preliminare, in cui le condizioni per giocare sono esplicitate e concordate. Ci sono giochi che già la prevedono nel loro setup. Per l’accordo pre-gioco di Stonewall mi sono ispirato a giochi da una sessione e chamber larp con un briefing strutturato.

Leggendo il testo di Musta ho avuto qualche difficoltà a capire la distinzione tra beer first e game first (ne ho parlato anche con lui). Ho visto che molte persone invece la trovano utile, e anche tu l’hai usata nella conferenza all’Invisibil3con. Me la spieghi? Mi interessa un punto di vista indipendente.

La uso perché è un concetto facile da comunicare, puntando a semplificare.

Ho un amico che gioca da vent’anni ad AD&D con lo stesso gruppo. Quando si vedono, una volta al mese, è il loro momento insieme. Giocano, però non sono insieme davvero per giocare: il gioco è il pretesto per stare insieme. Non c’è necessariamente un grande coinvolgimento. Questo è beer first. Game first, invece, è quando siamo lì per giocare, ci sarà tempo dopo per le chiacchiere.

È una cosa difficile da comunicare a chi ha sempre giocato in maniera “scialla”, per esempio a D&D, perché le cose tendono molto a confondersi. Ci sono giochi in cui il coinvolgimento diventa forte, e buttarla in chiacchiera rischia di banalizzarlo e rovinare l’esperienza. Pensa a Ten Candles, che si gioca al buio con delle candele e si regge sull’atmosfera da pelle d’oca che si crea: se in mezzo io inizio di punto in bianco a parlare d’altro, uccido l’atmosfera.

Dagli esempi che hai fatto, sembra quasi che ci siano proprio dei giochi che di per sé sono beer first e altri che di per sé sono game first

Ci sono giochi che, per come sono fatti, se li giochi beer first non hai la stessa esperienza. Ma il punto è che, se io e te giochiamo a Ten Candles e tu sei lì innanzitutto per birra e chiacchiere, o lo abbiamo chiarito bene prima, o forse è meglio non giocare o giocare altro. Poi, certo, è più facile fare un esempio estremo, con un gioco che richiede atmosfera per funzionare, che con un gioco che può funzionare anche senza perché può reggere diversi livelli di coinvolgimento.

Ma è proprio così dicotomica, la cosa? Due intenti opposti, come gli estremi di un solo asse? Non potremmo dire che ci sono migliaia di assi ortogonali, migliaia di diversi modi di porsi rispetto al gioco, alcuni compatibili con quello che un certo gruppo vuole fare e alcuni no?

La dicotomia così netta nella DDI serve a far prendere coscienza della questione a persone che non sono abituate a ragionarci, perché per loro il gioco, magari, è nato e cresciuto in un gruppo dove le dinamiche sociali si sono in qualche modo assestate. Se escono da quel gruppo devono avere degli strumenti con cui confrontarsi con gli altri.

Io di solito, quando gioco ad esempio Mondo di Tenebra, faccio una chiacchierata e dico cosa per me va bene e cosa no: “Quando giochiamo, giochiamo. Fuori dal gioco le cazzate. Sappiate che il mio stile di gioco è molto dramedy”. Le battute vanno bene, ma senza esagerare: ci sta la battuta per spezzare la tensione, di tanto in tanto, dentro e fuori dal gioco, ma quella tensione va rispettata.

Ti confesso che, se tu avessi fatto a me questa spiegazione, non avrei capito cosa ti aspettassi da me.

Anche altre persone non l’hanno capito subito. Poi abbiamo giocato ed è risultato chiaro.

Quindi, a cosa serve la distinzione beer first e game first? A comunicare che cosa, se spesso, finché non giochiamo, non ci capiamo davvero, nemmeno dopo una spiegazione più elaborata?

La DDI serve innanzitutto a te, a interiorizzare dei concetti per poterli portare agli altri. Se decidiamo insieme che il gioco è la priorità, significa starci dentro.

Con “starci dentro” intendi dedicare l’attenzione al gioco, concentrarsi sul gioco?

Sì. Mi è capitato, facendo il master a Pathfinder, un combattimento che andava avanti da quaranta minuti: io non ce la facevo più, scalpitavo, mentre gli altri al tavolo erano tranquilli perché tra un turno e l’altro facevano le loro chiacchiere.

Ed era beer first o game first?

Non c’era allineamento, purtroppo. Quella sessione l’ho giocata anni fa, prima che uscisse la DDI. Io avevo in mente un game first, gli altri evidentemente un beer first. A un certo punto ho detto: “Ragazzi, abbiate pazienza, visto che conoscete le regole meglio di me, ho bisogno che non cazzeggiate e mi diate una mano”. Specificare questo, cioè che le chiacchiere andavano bene nelle pause e non nel combattimento, ha chiarito le cose e a quel punto sono tornati sul pezzo.

Non era sbagliato quello che stavano facendo prima: ho visto anche altri gruppi di D&D / Pathfinder in cui il combattimento era vissuto con relativa leggerezza, del tipo “ma sì, tiriamo, vediamo…”; a meno che non arrivasse il momento veramente teso, dove eri in bilico tra la vita e la morte.

Temo di essermi perso di nuovo. Stiamo parlando di coinvolgimento emotivo o di partecipazione fattiva? Sono due cose diverse.

Sono due cose che si intrecciano, almeno per i giochi che faccio io.

Un accordo game first, per cui quella sera il gioco ha la priorità, non deve portare per forza al coinvolgimento emotivo ma può farlo. Il coinvolgimento beer first invece è più leggero. Poi, per come funzionano il GdR e il bleed, anche in un beer first può capitare che qualcuno ci rimanga dentro.

Quando la sessione è beer first userò (per citare Meg Baker) l’approccio “nobody gets hurt”, “nessuno si fa male”, mentre nel game first è probabile che userò l’approccio “I will not abandon you”, “non ti abbandonerò”, se in quel contesto e con quelle persone mi sento a mio agio. Ecco, a grandi linee beer first e game first, secondo la mia interpretazione, possono essere viste proprio come estensioni di questi altri due concetti. Poi non è detto che corrispondano sempre e in ogni contesto.

Riflettendoci, però, l’impegno e la partecipazione non sono meno importanti anche in una sessione con approccio “nobody gets hurt”. E comunque, dare per scontate le aspettative verso l’esperienza di gioco può facilmente portare a non essere allineati e a generare frustrazione o insofferenza.


Questa era solo la prima parte dell’intervista: la prossima pagina contiene la seconda!



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