Una breve dichiarazione (torniamo al sicuro, parte 2)

La Dichiarazione di Intenti è stata il primo tema (sebbene non il più corposo) del mio speciale Siamo Sicuri? di 7 mesi fa. Visto che sto facendo dei “bignamini” riparto da lì.

Forse sarebbe meglio dire “le” dichiarazioni di intenti, perché con queste parole le persone intendono molte cose diverse (non è una novità, nel nostro hobby…). Non tutti fanno riferimento a quella popolarizzata da Riccardo “Musta” Caverni e dalla Locanda del Drago Rosso; e anche chi lo fa lo fa talvolta per sentito dire, senza aver letto l’originale.

Ho articolato il mio pensiero nelle conclusioni dello speciale, dopo aver intervistato, tra gli altri, lo stesso Musta. Qui lo riassumo in forma brevissima.

Avvertenze: queste sono le mie opinioni (considerate sempre un “penso che” sottinteso); non sono una persona perfetta e non sto dando lezioni; tratto solo di gioco e non di altri argomenti, per quanto somiglianti; ciò che dico potrebbe non piacervi.
Per maggiori dettagli vedete le avvertenze di Siamo Sicuri?.

Dove vogliamo arrivare?

Comunque vogliamo chiamare questi metodi, il loro scopo finale è allinearsi con gli altri giocatori sui contenuti del gioco, le regole e la logistica (dove, quando…), prima di iniziare.

L’ultima, la logistica, è così ovvia che non dovrebbe nemmeno stare in una procedura formale. Le altre due, invece, vengono a volte dimenticate. D&D (inteso in senso lato, lo sapete) è un gioco molto elastico che si presta a usi e adattamenti diversi: chiarirsi in merito è essenziale. Per questo da sempre c’è l’usanza della sessione zero. Ma, a quanto pare, una parte consistente della comunità giocante aveva bisogno di una rinfrescatina.

La Dichiarazione di Intenti (DDI) di Musta, edita da Mana Project (la trovate gratuitamente in pdf), è uno strumento specifico, formalizzato, che intende affrontare questo problema.

(L’ho descritto più in dettaglio in: Intenti dichiarati: una panoramica.)

Tuttavia è molto importante distinguere tra il fine (allinearsi sul gioco) e il mezzo specifico (la DDI). Il mezzo può e deve essere sottoposto a un’analisi critica, senza per questo negare il fine.

Lo dico perché a volte, purtroppo, nelle discussioni, chi fa osservazioni sullo strumento viene trattato come se volesse negare il problema alla base. Una trappola concettuale piuttosto comune. Un’altra è dire: “se ciò che hai fatto ha funzionato, vuol dire che hai usato quello strumento, magari senza saperlo” (allargando il perimetro che lo definisce, quando conviene); mentre “se hai provato a usarlo e non ha funzionato, vuol dire che non l’hai usato bene o non l’hai usato davvero” (stavolta restringendo il perimetro in modo minuzioso). Sono cose che succedono per la DDI come per le meccaniche di sicurezza. E sono abbastanza irritanti.

Il fine detto all’inizio è indiscutibilmente positivo. Ma l’importante è raggiungerlo, al di là del come. Mi sono chiesto: un documento scritto, fatto secondo i criteri della DDI di Musta, è il mezzo migliore per arrivarci? In generale, ho qualche dubbio. E vi spiego perché.

(Maggiori dettagli su questa prima parte sono qui: Il mezzo non è il fine.)

No, non è un safety tool

Prima, però, sfatiamo un mito: la DDI non è uno strumento di sicurezza. Lo stesso autore, nell’intervista, concorda su questo.

Spesso se ne parla come se lo fosse, e viene inclusa nei compendi di meccaniche di sicurezza. Per cui molti, quando sentono parlare di dichiarazioni di intenti, pensano subito a una lista di content warning o di “argomenti da evitare”, cose a cui la corposa guida di Musta dedica solo un paragrafo. È uno scomodo equivoco.

Ovviamente si può parlare di sicurezza, e di meccaniche di sicurezza, durante una dichiarazione di intenti. Ma confondere le due cose tra loro impedisce di comprendere a fondo sia l’una che l’altra.

È comunque una bella cosa

Nel complesso ho un’opinione positiva del lavoro di Musta. Ha individuato diversi problemi che effettivamente ci sono e sono sentiti. Ha portato attenzione e consapevolezza sull’argomento, e l’ha saputo popolarizzare. Il suo successo è meritatissimo.

Nel seguito mi concentrerò su quello che non va, ma la mia non è una stroncatura. Il fatto è che, benché la diagnosi sia corretta, il rimedio proposto ha varie cose che non mi convincono.

Formalità e ambiguità

Tutti i gruppi fanno una dichiarazione di intenti in senso lato: non si comincia mai a giocare senza comunicare niente. Certo, può capitare di tralasciare qualcosa di importante, per cui può essere utile una “checklist” di riferimento, come dicono i sostenitori della “vera” DDI. Ma d’altra parte, perfino tra loro, ben pochi seguono davvero il formato proposto: vari esempi si sono dimostrati molto più simili a ciò che faccio io (più veloce e sintetico).

Diversi problemi della DDI sono riportati da più parti. Si dice che è troppo formale, per cui può creare un’atmosfera “pesante” di “ufficialità” che allontana le persone. Che è onerosa, impegnativa da scrivere, poco “ergonomica” insomma. E che somiglia ad un contratto, cioè viene percepita come troppo vincolante.

Ci sono poi diverse ambiguità. Manca una chiara distinzione tra vincoli e propositi, cioè tra quali sue parti sono da intendere come obblighi, regole che ci si impegna a rispettare, e quali invece come semplici speranze o intenzioni. Manca una distinzione chiara anche tra l’ambito di gioco e l’ambito sociale: qui la confusione porta, soprattutto sul secondo, a tentativi di generalizzare cose che in realtà sono molto specifiche del sistema di gioco (per esempio la gestione delle informazioni nascoste, per quanto riguarda la goffa dicotomia Aperto/Chiuso).

L’ambiguità maggiore è forse la contrapposizione tra giocate beer first e game first. Intanto perché ognuno intende a modo suo il significato di questi termini (nelle interviste ho mostrato una varietà di esempi). Poi perché, anche a volerli prendere nel loro significato originale (beer: divertimento dovuto innanzitutto allo stare con certe persone; game: la ricerca di gioco ideale), non ha senso contrapporli: non sono cose in competizione o in contrasto, non siamo costretti a scegliere l’una o l’altra. Infine, perché è controproducente: crea false aspettative che possono allontanare dal tavolo persone che invece ci si troverebbero benissimo.

Sarebbe più chiaro usare indicazioni pratiche e oggettive: cosa vogliamo, concretamente, che i giocatori facciano e non facciano. Se proprio si cerca una dicotomia, quella tra “non ti abbandonerò” e “nessuno si fa male” di Meg Baker potrebbe essere più utile.

(Maggiori approfondimenti qui: Dalle parole alle birre.)

Predefinire è peggio che curare

Definire in anticipo il “tono” della giocata fa parte della DDI ma anche di altri strumenti formali per la sessione zero, come CATS. Penso che non sia una buona idea, e non solo perché riflette un approccio “registico” al gioco che non mi appartiene.

Intanto, è un ottimo esempio delle ambiguità di cui parlavo. Cosa si intende con tono? Si parla di quello dei personaggi e degli avvenimenti in game, o di quello dei giocatori al tavolo (il loro modo di parlare e comportarsi mentre giocano)? Se vedo nella DDI certe specifiche riguardo il tono (o le battute, l’umorismo eccetera), significa che dovrò impegnarmi attivamente per rispettarle (cioè sono una regola, un obbligo), o che c’è l’aspettativa che vengano fuori da sole?

Soprattutto, il tono è un input o un output della giocata? La DDI e metodi simili sembrano dare per scontato che sia un input. Ma ricordiamo la “semplice verità nascosta” del GdR: decidere una cosa e scoprirla si escludono a vicenda. Io trovo molto bello e interessante quando il tono, e le emozioni, emergono a posteriori; ma questo può avvenire solo se non ci sforziamo di controllarli.

Se invece ci riferiamo solo al tono dell’ambientazione, del mondo di gioco, quello è un bello strumento espressivo nelle mani di un Diemme, ma non c’è bisogno di imporlo ai giocatori: basta mostrarlo coi fatti attraverso le reazioni dello scenario alle loro azioni.

Abituarsi a predefinire troppo le cose, prima di giocare, ha una serie di svantaggi. Oltre a quello che ho detto fin qui, c’è il rischio di fare front-loading, cioè che ci si accordi così bene su come dovranno andare le cose che alla fine, più che giocare per scoprire, ci limitiamo a mettere in atto quanto deciso, quasi fosse una sceneggiatura.

Infine, rischia di radicarsi in noi il pregiudizio che sia sbagliato chiarirsi durante il gioco, o interromperlo per parlare. Invece la comunicazione esplicita durante il gioco è fondamentale, e va normalizzata. È molto più efficace di qualunque accordo preliminare nel risolvere i problemi al tavolo (anche e soprattutto quelli come il “Dilemma del Re” presentato all’inizio del testo di Musta). Ci vuole un dialogo costante: non va alimentata l’idea che sia meglio comunicare prima, che un’incomprensione chiarita in corsa sia sintomo che qualcosa non va.

(Maggiori dettagli e approfondimenti qui: Abbassiamo i toni.)

Concludendo

È giusto ribadire l’importanza di una comunicazione chiara sulle premesse di gioco. La DDI lo fa, e affronta problemi reali: gliene va reso merito. Il suo difetto è che si concentra un po’ troppo sulla forma. Basta la comunicazione sufficiente per arrivare a quello scopo, a seconda del gruppo, senza strafare.

Anziché definire un metodo formale e molto specifico, presentandolo come qualcosa di nuovo e diverso rispetto a ciò che fa la gente normalmente, è più efficace proporre dei piccoli aggiustamenti a quelle che sono le pratiche già esistenti. Sarebbero anche accolti più facilmente.

4 pensieri riguardo “Una breve dichiarazione (torniamo al sicuro, parte 2)

  1. Concordo. In genere io non formalizzo la DDI, forse la uso inconsciamente, forse no, ma in genere è nella sessione zero che cerco di decidere tutto quello che può essere utile al tavolo. Quando invece si cercano giocatori online, definire qualcosa di più potrebbe far comodo proprio perché D&D (e similiari) si prestano a diversi modi per essere giocati e non tutti potrebbero piacermi.

    Sto invece seriamente pensando di introdurre i Principi per i giocatori, alla stregua dei Principi del GM di PbtA-iana memoria ma devo ancora comprendere come scriverli senza essere palloso ma rimanendo non ambiguo (più facile a dirsi che a farsi).

    Ciao 🙂

  2. Condivido, tranne forse il punto sul tono. Credo sia controproducente non essere espliciti sul tipo di gioco che si vuole. Mi è capitato molte volte di cominciare avventure “normali”, né comiche né tragiche per poi avere personaggi da fumetto slapstick affiancati da ombrosi orfani vampirici vestiti da Sogno degli Eterni… e per chi ha letto Sandman, si sono d’accordo che le due cose non si escludano a vicenda. Ma quasi sicuramente i due giocatori agli antipodi non si aspettavano questa dicotomia…

    1. Infatti “tono” è un termine molto vago e ambiguo: non sono contrario a settare un tono dell’ambientazione di gioco, mentre tendo a diffidare di chi cerca di settare il tono dei giocatori (non l’ho mai visto funzionare davvero bene). Nelle pagine linkate espando meglio 🙂

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